«Di nuovo lo scrittore», commentò tristemente quando lui ebbe finito. Si asciugò le lacrime. «Maledetto.»
«Mi ha ceduto la gamba e... Jake non ha esitato per un solo istante.» Lo aveva quasi chiamato il ragazzo, come aveva insegnato a se stesso a pensare al figlio di Elmer quando erano ormai sul punto di raggiungere Walter. Avendo avuto una seconda occasione, aveva giurato a se stesso di non farlo mai più.
«No, è ovvio», disse lei sorridendo. «Non avrebbe mai esitato. Aveva fegato da vendere il nostro Jake. Ti sei preso cura di lui? Hai fatto quello che dovevi? Voglio sentire questa parte.»
Così lui raccontò, senza omettere la promessa di Irene Tassenbaum di piantare la rosa. Susannah annuì. «Vorrei che potessimo fare lo stesso per il tuo amico Sheemie», sospirò. «È morto sul treno. Mi dispiace, Roland.»
Roland annuì. Rimpianse di non avere del tabacco. Aveva di nuovo entrambe le sue pistole e Susannah aveva la Ruger; avevano anche sette piatti Oriza. Quanto al resto, avevano poco o niente.
«Ha dovuto spingere di nuovo, mentre venivate qui? Immagino di sì. Sapevo che sarebbe stata una volta di troppo. Lo sapeva anche sai Brautigan. E Dinky.»
«Ma non è stato quello, Roland. È stato il piede.»
Il pistolero la guardò negli occhi senza capire.
«Durante la battaglia di Cielo Blu si era tagliato un piede con un coccio di vetro e l'aria e la terra di quel posto erano veleno!» Fu Detta a sputare fuori quell'ultima parola con un impeto che gliela fece storpiare al punto che al pistolero parve quasi di sentire: Vino! «Quel piede maledetto gli si è gonfiato... dita come salsicce... poi è diventato tutto nero sulle guance e il collo, come un grande livido... gli è venuta la febbre...» Trasse un respiro profondo serrando le dita nelle due coperte che si era stretta intorno al corpo. «Si è messo a delirare, ma alla fine la sua mente è ridiventata lucida. Ha parlato di te e di Susan Delgado. Ha parlato con tanto amore e tanto rimpianto...» Fece una pausa, poi proruppe: «Ci andremo, Roland! Ci andremo e se non ne sarà valsa la pena, la tua Torre, troveremo il modo che sia valsa lo stesso!»
«Ci andremo», ripeté lui. «Troveremo la Torre Nera e nulla potrà fermarci e prima di andare, faremo i loro nomi. Di tutti coloro che non ci sono più.»
«La tua lista sarà più lunga della mia», commentò lei, «ma la mia sarà abbastanza lunga comunque.»
A questo Roland non rispose, ma lo fece invece l'imbonitore robot, forse risvegliato dal suo lungo sonno dal suono delle loro voci. «Ragazze, ragazze, ragazze!» declamò dall'interno del Gaiety Bar and Grille. «Ce n'è di iper e ce n'è di cyber, ma che importa, chi si accorge, che importa, loro danno, tu chiedi, le ragazze chiedono, tu chiedi...» Ci fu una pausa, poi il robot urlò un'ultima parola - SODDISFAZIONE!» - e tacque.
«Per gli dei, che posto squallido», commentò Roland. «Resteremo per la notte e poi non lo vedremo più.»
«Almeno c'è il sole ed è un bel sollievo dopo Rombo di Tuono. Peccato che faccia così freddo!»
Lui annuì, quindi le chiese degli altri.
«Se ne sono andati», rispose lei, «ma c'è stato un momento in cui ho pensato che nessuno di noi sarebbe andato da nessuna parte se non in fondo a quel crepaccio laggiù.» Indicò la fine della strada principale di Fedic, dalla parte opposta delle mura del castello.
«In alcune delle carrozze ci sono schermi TV che funzionano ancora e quando siamo arrivati in prossimità di Fedic abbiamo visto sui monitor il ponte distrutto. Si vedevano gli spezzoni rimasti, protesi sulla voragine, con uno spazio in mezzo che doveva essere di cento metri, forse più. Si vedeva anche il ponte della ferrovia, e quello era ancora intatto. Intanto il treno stava rallentando, ma non abbastanza perché potessimo saltare giù. Ormai non c'era più tempo. E saltare sarebbe probabilmente stato fatale per chiunque ci avesse provato. Viaggiavamo... oh, direi a cinquanta miglia all'ora. E appena siamo stati sul ponte, la struttura ha cominciato a scricchiolare e gemere. O a ruiare e gruire, se hai mai letto il tuo James Thurber, ma immagino di no. Il treno faceva musica. Come Blaine, ricordi?»
«Sì.»
«Ma noi sentivamo che il ponte era in bilico. Poi tutto ha cominciato a tremare violentemente. Una voce, molto calma e suadente, ha detto: 'Stiamo incontrando piccole difficoltà, i passeggeri sono pregati di rimanere seduti'. Dinky teneva in braccio Dani, la piccola russa. Ted mi ha preso le mani e ha detto: 'Voglio dirle, signora, che è stato un piacere conoscerla'. C'è stato uno scossone così forte che per poco non sono stata sbalzata dal sedile. Devo dire grazie a Ted, che mi stava tenendo per le mani. Così ho pensato: Eccoci, è finita, ti prego, Signore, fai che sia morta prima che mi sbranino i mostri che ci sono là sotto e per un secondo o due abbiamo cominciato ad andare indietro. Indietro, Roland! Ho visto la nostra carrozza, che era la prima dietro la motrice, che cominciava a inclinarsi. Ho sentito stridere delle lamiere. Poi il buon vecchio Spirito di Topeka ha dato una bella botta al gas e via. Pensala come vuoi sugli Antichi, so che hanno combinato un sacco di pasticci, però bisogna ammettere che costruivano macchine con le palle.
«Poi, tutt'a un tratto, stiamo entrando in stazione. Ed ecco che si sente la stessa voce suadente di prima, che questa volta ci invita a guardarci intorno e assicurarci di aver preso tutti i nostri effetti personali, la nostra roba. Neanche fossimo su un dannato volo della TWA appena atterrato a Idlewild! Solo quando siamo scesi abbiamo visto che le ultime nove carrozze non c'erano più. Meno male che erano tutte vuote.» Indirizzò un'occhiata astiosa (ma impaurita) all'estremità della via. «Spero che vadano di traverso ai mostri là sotto.»
Poi il suo volto si rasserenò.
«Una cosa positiva c'è. A trecento miglia all'ora, che sarebbe la velocità a cui viaggiavamo secondo quello che ci ha detto quella voce da allegra brigata, dovremmo aver fatto mangiare la polvere al Signor Ragnetto.»
«Non ci conterei troppo», ribatté Roland.
Lei alzò gli occhi al cielo con una smorfia. «Non dire così.»
«Lo dico. Ma ci occuperemo di Mordred quando sarà il momento e non credo che verrà oggi.»
«Bene.»
«Sei stata di nuovo sotto il Dogan? Mi sembra di capire di sì.»
Susannah sgranò gli occhi. «Fantastico, vero? Al confronto la Grand Central sembra la stazioncina di qualche posticino sperduto in campagna. Quanto ci hai messo a venir su?»
«Fosse stato per me, starei ancora girando a vuoto là sotto», confessò Roland. «È stato Oy a trovare l'uscita. Penso che stesse seguendo le vostre tracce.»
Susannah rifletté. «Può essere. L'odore di Jake, più che altro. Sei stato in un passaggio spazioso con un cartello sul muro che dice MOSTRARE SOLO PASS ARANCIONE, NON SI ACCETTANO PASS BLU?»
Roland annuì, ma la scritta scolorita non lo aveva minimamente illuminato. Aveva identificato il passaggio che percorrevano i Lupi all'inizio delle loro scorribande grazie alla presenza di due immobili cavalli grigi e di una di quelle maschere ringhianti. Aveva scorto anche un mocassino che ricordava bene, ricavato da un pezzo di gomma. Di Ted o Dinky, aveva concluso. Sheemie Ruiz era stato senza dubbio seppellito con le sue calzature addosso.
«Dunque», riprese, «siete scesi dal treno... in quanti?»
«Cinque, visto che Sheemie era morto», rispose lei. «Io, Ted, Dinky, Dani Rostov e Fred Worthington. Ricordi Fred?»
Roland annuì. L'uomo vestito da banchiere.
«Ho fatto loro da guida turistica per una visita al Dogan», spiegò lei. «Per quanto mi era possibile. I letti dove estraevano il cervello ai bambini e quello dove finalmente Mia ha messo al mondo il suo mostro; la porta a senso unico tra Fedic e il Dixie Pig a New York; l'appartamento di Nigel.
«Ted e i suoi amici sono rimasti colpiti soprattutto dalla rotonda dove ci sono tutte le porte, in particolare quella che porta a Dallas nel 1963, dove è stato ucciso il presidente Kennedy. Due livelli più giù, dove ci sono la gran parte dei corridoi, abbiamo trovato un'altra porta da cui si entra nel Ford's Theater, il teatro dove fu assassinato il presidente Lincoln nel 1865. C'è persino una locandina della commedia che stava guardando quando Booth gli sparò. Our American Cousin, s'intitolava. Ma a chi poteva venire in mente di andare a vedere una cosa del genere?»
Roland pensò che per la verità a molti sarebbe interessato andarci, ma ebbe il garbo di tenerlo per sé.
«È tutto molto vecchio», disse lei, «e fa un gran caldo. E mette anche una bella dose di brividi addosso, se vuoi saperlo. Quasi tutte le macchine non funzionano più e ci sono dappertutto pozzanghere di acqua e olio e Dio solo sa che cos'altro. Alcune delle pozzanghere emettevano una luce e Dinky ha detto che potevano essere radiazioni. Non mi va di pensare che cosa mi sta crescendo sulle ossa o quando comincerò a perdere i capelli. C'erano delle porte da dietro le quali veniva quell'orribile suono di campanelle... quello che ti fa stridere i denti.»
«Campanelle di contezza.»
«Già. E cose dietro ad alcune delle altre. Cose striscianti. Sei stato tu o è stata Mia a dirmi che nelle tenebre della contezza ci sono dei mostri?»
«Forse io», rispose Roland. E ce n'erano eccome.
«Ci sono cose anche in quel crepaccio in fondo al villaggio. È stata Mia a dirmelo. 'Mostri che tramano, trafficano, si moltiplicano e complottano fughe', mi disse. E poi Ted, Dinky, Dani e Fred si sono presi per mano. Hanno fatto quella che Ted chiama 'la piccola buona mente'. L'ho avvertita anche se non ero dentro il loro cerchio, ed ero contenta di sentirla, perché quello è un posto veramente pauroso, là sotto.» Strinse di più le coperte che l'avvolgevano. «Non ho nessuna voglia di tornarci.»
«Ma credi che dovremo.»
«C'è un passaggio che scende in profondità sotto il castello ed esce dall'altra parte, nella Discordia. Sono stati Ted e i suoi amici a localizzarlo intercettando pensieri antichi, quelli che Ted chiama pensieri-fantasma. Fred aveva in tasca un gesso e me l'ha segnato, ma sarà lo stesso difficile ritrovarlo. Quello che c'è là sotto è come il labirinto di quella vecchia leggenda greca del mostro con la testa di toro. Devo sperare che sapremo ritrovarlo...»
Roland si chinò ad accarezzare il pelo ruvido di Oy. «Lo troveremo. Questo nostro piccolo amico ripercorrerà le tracce che tu hai lasciato. Non è vero, Oy?»
Oy alzò il muso e lo guardò con quegli occhi cerchiati d'oro, ma non disse niente.
«Comunque», riprese lei, «Ted e gli altri hanno toccato le menti delle cose che vivono in quel crepaccio là in fondo. Non lo hanno fatto intenzionalmente, ma le hanno toccate. Quelle cose non sono né con il Re Rosso, né contro di lui, sono solo dalla parte di se stesse, ma pensano. E sono telepatiche. Sapevano che noi eravamo lì e una volta stabilito il contatto erano contente di confabulare. Ted e i suoi amici hanno detto che è da tempi lunghissimi che scavano il loro cunicolo verso le catacombe sotto la Stazione Sperimentale e che ormai sono vicine a uscire all'aperto. Dopodiché saranno libere di scorrazzare ovunque vogliano.»
Roland meditò per qualche secondo su queste informazioni, dondolandosi avanti e indietro sui tacchi consunti degli stivali. Si augurava di essere ben lontano con Susannah prima che quegli esseri sbucassero dal terreno... ma forse sarebbe avvenuto prima dell'arrivo di Mordred e allora il marmocchio avrebbe dovuto affrontarle se avesse voluto inseguirli. Baby Mordred contro gli antichi mostri del sottosuolo... ecco un pensiero corroborante.
Finalmente con la testa indicò a Susannah di proseguire.
«Abbiamo sentito le campanelle della contezza suonare anche in alcuni dei passaggi. Non solo dietro le porte, ma in passaggi dove la porta non c'era! Ti rendi conto di che cosa vuol dire?»
Roland se ne rendeva conto. Se avessero imboccato il passaggio sbagliato - o se Ted e i suoi amici avessero commesso un errore nello scegliere il passaggio che avevano segnato - lui, Susannah e Oy sarebbero probabilmente scomparsi per sempre invece di riemergere dall'altra parte di Castello Di' scordia.
«Non hanno voluto lasciarmi laggiù e mi hanno riaccompagnato fino all'infermeria prima di proseguire. Posso dire che gliene sono grata. Non mi andava l'idea di dovermi arrangiare da sola, anche se probabilmente ce l'avrei fatta lo stesso.»
Roland l'abbracciò e la strinse. «E la loro intenzione era di usare la porta che usavano i Lupi?»
«Sì, quella in fondo al corridoio del PASS ARANCIONE. Usciranno dove uscivano i Lupi, troveranno la via per il fiume Whye e l'attraverseranno per raggiungere Calla Bryn Sturgis. Il folken del Calla li accoglierà, no?»
«Sì.»
«E quando avranno ascoltato tutta la loro storia non... non è che li linceranno?»
«Sono sicuro di no. Henchick saprà che stanno dicendo la verità e almeno lui li difenderà.»
«Sperano di poter usare la Grotta di Passo per tornare sul lato americano.» Sospirò. «Spero che per loro funzioni, ma ho i miei dubbi.»
Li aveva anche Roland. Ma quei quattro erano potenti e Ted gli aveva dato l'impressione di essere uomo di straordinaria determinatezza e infinite risorse. Erano potenti anche i Manni, a modo loro, ed erano grandi viaggiatori tra i mondi. Pensò che presto o tardi Ted e i suoi amici sarebbero finalmente tornati in America. Fu sul punto di rispondere a Susannah che così sarebbe avvenuto se lo voleva il ka, ma desistette. Ka non era una delle sue parole preferite, in quel momento, e non era certo lui a poterla biasimare per questo.
«Ora odimi molto bene e pensa con attenzione, Susannah. Ti dice niente la parola 'Dandelo'?»
Oy alzò la testa con una luce brillante negli occhi.
Lei rifletté. «Mi ricorda qualcosa», ammise, «ma brancolo nel buio. Perché?»
Roland le spiegò che cosa pensava: che in punto di morte, Eddie aveva avuto una sorta di visione di qualcosa... o di un luogo... o di una persona. Qualcosa di nome Dandelo. Eddie lo aveva riferito a Jake, Jake a Oy e Oy a Roland.
Susannah lo ascoltò dubbiosa con la fronte corrugata. «Forse ci sono stati un po' troppo passaparola. C'era un gioco che facevamo da bambini. Bisbiglio, si chiamava. Il primo bambino pensava qualcosa, una parola o una frase, e la bisbigliava a un altro. Lo potevi sentire una volta sola, non erano ammesse le ripetizioni. Poi un bambino passava il messaggio all'altro, ciascuno riferendo quello che credeva di aver sentito. Ora che arrivava all'ultimo della fila, era qualcosa di completamente diverso e ti assicuro che c'era da spanciarsi dal ridere. Ma se è sbagliato questo, non credo che a noi verrà da ridere.»
«Be'», ribatté Roland, «terremo gli occhi aperti sperando che abbia sentito giusto. Forse non significa niente.» Ma non ne era così convinto.
«Come facciamo con i vestiti se il freddo aumenta?» volle sapere lei.
«Confezioneremo quelli di cui avremo bisogno. So come fare. È un'altra cosa di cui non dobbiamo preoccuparci oggi. Al momento è soprattutto importante che troviamo qualcosa da mettere sotto i denti. Immagino che, se necessario, potremmo ritrovare la dispensa di Nigel...»
«Non voglio tornare sotto il Dogan finché non sarà indispensabile», dichiarò Susannah. «Di fianco all'infermeria deve esserci per forza una cucina. Avranno pur dato da mangiare a quelle povere creature.»
Roland ne convenne. Era un'ottima ipotesi.
«Facciamolo subito», disse Susannah. «Nemmeno al piano terra voglio trovarmi dopo che farà buio.»
4
In Turtleback Lane, nell'anno 2002, mese di agosto, Stephen King si desta da un sogno di Fedic fatto da sveglio. Scrive: Nemmeno al piano terra voglio trovarmi dopo che farà buio. Le parole appaiono sullo schermo che ha davanti. È la fine di uno di quelli che chiama sottocapitolo, ma questo non sempre significa che per quel giorno abbia chiuso. Chiudere per il giorno dipende da quello che non sente. Ora, più precisamente, sta ascoltando il Ves'-Ka Gan, la canzone della Tartaruga. Questa volta la musica, che in certi giorni è debole e in altri così forte da quasi assordarlo, sembra che sia cessata. Tornerà domani. Almeno, fin'ora è sempre stato così.
Schiaccia insieme CONTROL e S. Il computer emette un piccolo segnale acustico che indica che il materiale che ha scritto oggi è stato salvato. Poi si alza, fa una smorfia per il dolore all'anca, e va alla finestra dello studio. Guarda il vialetto che sale ripido alla strada dove ora passeggia solo di rado (e mai e poi mai va a passeggiare sulla Route 7). L'anca gli fa più male del solito stamattina e i muscoli grandi della coscia sono maledettamente infiammati. Si massaggia distrattamente l'anca mentre guarda fuori.
Roland, pezzo di bastardo, mi hai restituito il dolore, pensa. Gli scende per la gamba destra come un cordone rovente, non venirmi a dire Dio, non venire a dirmi Bomba di Dio, e alla fine se l'è beccato lui. Sono passati tre anni dall'incidente che per poco gli è costato la vita e il dolore c'è ancora. È diminuito adesso, l'organismo umano contiene uno straordinario motore di guarigione (hot-enj, pensa e gli viene da sorridere), ma in certi momenti è ancora atroce. Non ci pensa molto quando sta scrivendo, scrivere è un modo di andare a contezza, ma ritorna sempre con prepotenza dopo che ha trascorso un paio d'ore alla scrivania.
Pensa a Jake. Gli spiace da matti che Jake sia morto e prevede che quando quest'ultimo libro sarà pubblicato, i lettori daranno fuori di testa. Più che comprensibile, del resto. Alcuni di loro conoscevano Jake Chambers da vent'anni, quasi due volte gli anni che il ragazzo ha vissuto. Oh, daranno sì fuori di testa, e quando lui risponderà alle loro lettere e dirà che gli dispiace quanto a loro, che ne è sorpreso quanto loro, gli crederanno? Manco sul suo ferrotipo, come soleva dire suo nonno. Pensa a Misery: Annie Wilkes che chiamava Paul Sheldon «sporca burba» per aver cercato di far fuori quella sciocca testa vuota di Misery Chastain. Annie che gridava a Paul che lui era lo scrittore e che lo scrittore per i suoi personaggi è Dio, non è costretto a uccidere nessuno se non è lui a volerlo.
Ma non è Dio. Non lo è almeno in questo caso. Sa benissimo che Jake Chambers non c'era il giorno dell'incidente. Come non c'era Roland Deschain - un'idea ridicola, sono personaggi di fantasia, Dio del cielo - ma sa anche che a un certo punto la canzone che sente quando sta seduto al suo bel Macintosh diventa la canzone di morte di Jake e far finta di niente vorrebbe dire perdere del tutto contatto con il Ves'-Ka Gan, e questo non lo deve fare. Non può, se vuole finire. Quella canzone è l'unico filo che ha, sono le briciole di pane che deve seguire se vuole uscire da questa caotica foresta di trama che ha piantato lui stesso e...
Sei sicuro di essere stato tu a piantarla?
Be'... no. Per la verità non lo è. Allora chiamate pure quelli con il camice bianco.
E sei assolutamente certo che quel giorno Jake non c'era? Quanto ricordi di quel maledetto incidente, sii onesto?
Non molto. Ricorda di aver visto apparire all'orizzonte il tetto del minivan di Bryan Smith e di essersi reso conto che non era sulla sede stradale, dove sarebbe dovuto essere, ma sul ciglio. Dopodiché ricorda Smith seduto su un muro di pietra a guardarlo e dirgli che aveva la gamba fratturata in almeno sei punti diversi, forse sette. Ma tra questi due ricordi, quello del sopraggiungere del mezzo e quello dei momenti immediatamente successivi all'incidente, il film della sua memoria è tutto rosso, bruciato.
O quasi rosso.
Ma certe volte di notte, quando si sveglia da sogni che non riesce a ricordare bene...
Certe volte ci sono...
«Certe volte ci sono delle voci», dice. «Perché non lo dici chiaro e tondo?»
Dopodiché, ridendo: «Mi sa che lo ho appena fatto».
Sente un ticchettio di unghie in corridoio e Marlowe mette dentro il suo lungo naso. È un corgie gallese con zampe corte e orecchie grandi e ormai è un vecchietto, con la sua bella razione di dolori e acciacchi, per non parlare dell'occhio che ha perso l'anno scorso per un cancro. Il veterinario aveva detto che probabilmente non ne sarebbe venuto fuori, invece ce l'ha fatta. Bravo ragazzo. Ragazzo tosto. E quando dalla sua prospettiva necessariamente bassa alza la testa per guardare lo scrittore, ha sulle labbra quel sogghigno malandrino. Come ti butta, buontempone? sembra dire. Sei andato forte con le parole oggi? Come stai?
«Sto bene», dice a Marlowe. «Tiro avanti. E come stai tu?»
Per tutta risposta Marlowe (talvolta noto come Il Grifo) agita il posteriore artritico.
«Di nuovo tu,» Così gli ho detto. E lui mi ha chiesto: «Ti ricordi di me?» O forse me lo ha detto: «Ti ricordi di me». Io gli ho detto che avevo sete. Gli ho detto che non avevo niente da bere, lui ha detto spiacente, e io gli ho dato del bugiardo. E avevo ragione a dargli del bugiardo perché non gli dispiaceva affatto. Non gli fregava un fico secco se io avevo sete perché Jake era morto e lui cercava di addossarlo a me, quel figlio di troia cercava di incolpare me...
«Ma niente di tutto questo è successo davvero», ribatte King, guardando Marlowe che se ne torna in cucina, dove controllerà ancora una volta il suo piatto prima di schiacciare uno dei suoi sempre più lunghi sonnellini. La casa è deserta, ci sono solo loro due, e in quella situazione gli capita spesso di parlare da solo. «Cioè, lo sai, no? Che niente di questo è successo davvero?»
Probabilmente sì, ma è stato così strano che Jake morisse in quel modo. E in tutti i suoi appunti e non c'è da meravigliarsi perché nel progetto Jake doveva esserci fino alla fine, anzi, dovevano esserci tutti. Naturalmente nessuna storia se non quelle andate a male, quelle tirano le cuoia prima della fine, è completamente sotto il controllo dello scrittore, ma questa è così fuori del suo controllo da non crederci. Si ha veramente la sensazione di stare a guardare qualcosa che accade, o di ascoltare una canzone, invece di scrivere una maledetta storia inventata lì per lì.
Decide di farsi un sandwich di burro di arachidi e marmellata e di rimandare quella faccenda rognosa a un altro giorno. Oggi andrà a vedere il nuovo film di Clint Eastwood, Debito di sangue e si feliciterà di poterci andare, di poter fare ancora delle cose. Domani sarà di nuovo alla scrivania e può darsi che nel libro finisca qualcosa arrivato dal film. Del resto Roland era un po' Clint Eastwood fin dal principio, era L'Uomo senza nome di Sergio Leone.
E... a proposito di libri...
Sul tavolino c'è quello che è arrivato quella mattina dal suo studio di Bangor consegnato da un corriere: l'opera completa di Robert Browning. Contiene naturalmente Childe Roland alla Torre Nera giunse, il poema che è alla radice della lunga (e stressante) storia di King. A un tratto gli viene un'idea e gli fa spunta sul viso un'espressione che si ferma appena al di qui di una sonora risata. Come leggendo i suoi sentimenti (ed è possibile che sia così; King ha sempre avuto il sospetto che i cani siano emigranti di recente dal grande io-so-be-ne-cosa-provi paese di Empathica), riappare e si dilata il ghigno malandrino di Marlowe.
«Un posto per il poema, vecchio mio», dice King e lascia ricadere il libro sul tavolino. È un libro grosso e piomba giù con un tonfo. «Un posto e uno soltanto.» Poi sprofonda nella poltrona e chiude gli occhi. Me ne voglio star qui solo per un minuto o due, pensa, sapendo che sta prendendo in giro se stesso, sapendo che quasi certamente si addormenterà. Infatti.
PARTE QUARTA
LE BIANCHE LANDE DI EMPATHICA
DANDELO
1
La cosa sotto il castello
1
Alla Stazione Sperimentale dell'Arco 16 trovarono davvero una cucina di buone dimensioni e un'attigua dispensa al pianterreno, non lontano dall'infermeria. Trovarono anche qualcos'altro: l'ufficio di sai Richard P. Sayre, il fu Capo alle Operazioni del Re Rosso, ora nella radura in fondo al sentiero, con i complimenti della veloce destra di Susannah Dean. Sulla scrivania di Sayre c'erano dossier incredibilmente completi su tutti e quattro loro. Li distrussero usando la sminuzzatrice. Nelle cartellette c'erano fotografie di Eddie e Jake che era troppo doloroso guardare. Meglio i ricordi.
Alla parete erano appesi due dipinti in cornice. In uno si vedeva un bel ragazzo robusto. Era a torso nudo, scalzo, con i capelli ricci. Sorrideva, vestito solo di jeans e con una presa del portuale. L'età era pressappoco quella di Jake. L'immagine emanava una sensualità non del tutto piacevole. Guardandola, a Susannah venne da pensare che l'autore, sai Sayre o entrambi, dovessero aver fatto parte della Lavender Hill Mob, come aveva sentito che venivano chiamato ogni tanto gli omosessuali al Village. Il ragazzo aveva i capelli neri. Gli occhi azzurri. Le labbra rosse. Aveva una vistosa cicatrice sul fianco e una voglia sul tallone sinistro, vermiglia come le labbra. Davanti a lui giaceva, morto, un cavallo bianco come la neve. Aveva del sangue sui denti scoperti. Il piede sinistro del ragazzo, quello con la voglia, era posato sul fianco del cavallo e le sue labbra erano piegate in un sorriso di trionfo.
«È Llamrei, il cavallo di Arthur Eld», disse Roland. «La sua immagine veniva portata in battaglia sui vessilli di Gilead ed era il sigul di tutto l'Entro-Mondo.»
«Dunque, secondo quel che si vede in questo quadro, a vincere sarebbe il Re Rosso», osservò lei. «O se non lui, suo figlio Mordred.»
Roland inarcò le sopracciglia. «Grazie a John Farson, gli uomini del Re Rosso conquistarono le terre dell'Entro-Mondo molto tempo fa», rispose. Ma poi sorrise. Fu un'espressione solare così insolita per lui che Susannah, guardandolo, provò un principio di vertigine. «Ma io credo che noi vincemmo la sola battaglia veramente importante. Quello che si vede in questo quadro non è che una fantasticheria augurale.» Poi, con una ferocia che la sorprese, con un pugno fracassò il vetro del quadro e strappò via la tela dalla cornice lacerandola quasi da capo a fondo. Prima che potesse ridurla in brandelli, come certamente intendeva fare, lei lo fermò e gli mostrò qualcosa ai piedi dell'immagine. In una scrittura piccola piccola, lo stesso accuratamente calligrafica, c'era il nome dell'autore: Patrick Danville.
Nell'altro quadro si vedeva la Torre Nera, un rastremato cilindro di un tetro color fuliggine. Si ergeva in fondo al Can'-Ka No Rey, il campo di rose. Nei loro sogni la Torre era più alta del più alto grattacielo di New York (che per Susannah era l'Empire State Building). Nel dipinto figurava alta non più di duecento metri, ma non per questo era priva di un'onirica maestosità. Le finestrelle erano disposte a spirale e salivano intorno alla sua circonferenza come le avevano viste loro in sogno. In cima c'era una finestra ad aggetto, con un vetro policromo, in cui Roland riconobbe i colori corrispondenti a ciascuna delle sfere del Mago. Il cerchio più piccolo era dello stesso rosa della sfera che per qualche tempo era rimasta in possesso di una certa strega di nome Rhea; il cerchio centrale era l'ebano funebre della Tredici Nera.
«La stanza dove devo andare è dietro quella finestra», disse Roland battendo il dito sul vetro che proteggeva il dipinto. «È qui che finisce la mia ricerca.» La sua voce era sommessa e incantata. «Questo quadro non è stato dipinto sulla scorta di un sogno, Susannah. È come se toccassi la consistenza concreta di ogni mattone. Sei d'accordo?»
«Sì.» Fu tutto quello che riuscì a dire. Vederla appesa al muro del non compianto Richard Sayre le toglieva il respiro. A un tratto tutto le sembrò possibile. La fine della missione era in vista, nel senso più letterale del termine.
«La persona che ha dipinto il quadro dev'esserci stata», rifletté Roland. «Deve aver piantato il suo cavalletto in mezzo alle rose.»
«Patrick Danville», ribatté lei. «È la stessa firma che c'è sul quadro di Mordred e del cavallo morto, hai visto?»
«Lo vedo molto bene.»
«E vedi il sentiero che attraversa le rose fino ai gradini alla base della torre?»
«Sì. Diciannove gradini, non ne dubito. Chassit. E le nuvole in cielo...»
Già, anche quelle. Formavano un gorgo nell'allontanarsi dalla Torre in direzione dei Posto della Tartaruga, all'altra estremità del Vettore che fino a quel momento avevano seguito. E notò un'altra cosa ancora. All'esterno della torre, a intervalli di una quindicina di metri, c'erano balconi con ringhiere di ferro battuto alte fino alla vita. Sul secondo balcone c'erano una macchia rossa e tre macchioline bianche: una faccia troppo piccola perché fosse identificabile e due mani alzate.
«Quello è il Re Rosso?» domandò puntando il dito. Non aveva il coraggio di posarlo sul vetro in corrispondenza di quella figura minuscola. Era come se temesse che acquistasse improvvisamente vita e la risucchiasse dentro il quadro.
«Sì», rispose Roland.
«Chiuso fuori dall'unica cosa che desidera.»
«Allora può darsi che possiamo sorpassarlo salendo tranquillamente per le scale. Facendogli una bella pernacchia.» E quando Roland la guardò confuso, spinse la lingua tra le labbra e gliene diede una dimostrazione.
Questa volta il sorriso del pistolero fu fugace e distratto. «Non credo che sia così facile.»
Susannah sospirò. «Per la verità neppure io.»
Avevano quello per cui erano venuti - un bel po' di più, in realtà - ma lo stesso trovavano difficile andarsene. Erano trattenuti da quel quadro. Susannah chiese a Roland se non volesse portarlo via. Sarebbe stato semplice ritagliarlo dal telaio con il tagliacarte che c'era sulla scrivania di Sayre e arrotolare la tela. Roland ci pensò su, poi scosse la testa. C'era in esso qualcosa di maligno che avrebbe potuto attirare l'attenzione delle persone sbagliate, come le falene sono richiamate da una luce brillante. E anche se così non fosse stato, temeva che potessero entrambi sprecare troppo tempo a contemplarlo. Il quadro avrebbe potuto distrarli, o peggio ancora, ipnotizzarli.
Alle fine potrebbe essere una trappola mentale anche questa, rifletté. Come Insomnia.
«Lo lasceremo qui», concluse. «Presto, fra pochi mesi se non settimane, potremo guardare con i nostri occhi la torre vera.»
«Così dici?» ribatté lei con un filo di voce. «Roland, davvero dici così?»
«Lo dico.»
«Tutti e tre? O dovremo morire anche io e Oy per aprirti la strada alla Torre? Del resto quando hai cominciato eri solo, no? Forse è così che devi finire. È così che vuole lo scrittore, giusto?»
«Questo non significa che possa anche farlo», obiettò Roland. «Stephen King non è l'acqua, Susannah. Lui è solo il tubo dentro cui l'acqua scorre.»
«Capisco quello che vuoi dire, ma non sono sicura di poterlo credere fino in fondo.»
Non ne era sicuro nemmeno Roland. Aveva pensato di far notare a Susannah che al vero esordio della sua ricerca, a Mejis, con lui c'erano Cuthbert e Alain e che quando erano partiti per Gilead, a loro si era unito Jamie DeCurry. D'altra parte l'inizio vero e proprio del suo viaggio verso la Torre era stato dopo la battaglia di Jericho Hill e, sì, in quel momento era solo.
«Da solo ho cominciato, ma non è così che finirò», dichiarò. Susannah si era spostata agevolmente su una poltrona da ufficio con le rotelle. Ora Roland la sollevò e se la sistemò sull'anca destra, quella che non gli faceva più male. «Tu e Oy sarete con me quando salirò quelle scale ed entrerò da quella porta, sarete con me quando salirò in cima, sarete con me quando affronterò quell'odioso faccendiere rosso, e sarete con me quando entrerò nell'ultima stanza.»
Anche se non disse niente, a Susannah suonò falso. In verità suonò falso a entrambi.
2
Tornarono al Fedic Hotel con cibi in scatola, una padella, due pentole, due piatti e due serie di posate. Roland aveva preso anche una torcia che forniva la luce scarsa di batterie quasi esaurite, un coltello da cucina e una comoda accetta di piccole dimensioni con l'impugnatura rivestita in gomma. Susannah aveva trovato un paio di borse a rete in cui riporre la loro piccola scorta. Da un ripiano della dispensa vicino alla cucina dell'infermeria aveva preso anche tre barattoli di una sostanza gelatinosa.
«È Sterno», spiegò al pistolero che glielo aveva chiesto. «Roba buona. Si può accendere. Brucia lentamente e fa una fiamma blu abbastanza forte da cucinarci sopra.»
«Pensavo di allestire un piccolo fuoco dietro l'albergo», ribatté lui. «Non credo di aver certo bisogno di questa roba puzzolente.» Lo disse con una punta di disprezzo.
«No, certo che no. Ma potrebbe tornare utile.»
«Non lo so, però...» Si strinse nelle spalle.
Di fianco alla porta che dava sulla strada c'era un armadio che doveva essere appartenuto al custode. Susannah era già sazia di Dogan ed era ansiosa di andarsene, ma Roland volle dare un'occhiata. Trascurò i secchi, le scope e il materiale per le pulizie, interessandosi invece a rotoli di corda e cinghie ammucchiati in un angolo. Guardando le assi su cui erano posate, Susannah dedusse che dovevano essere servite per costruire ponteggi provvisori. Aveva anche il sospetto di sapere perché Roland volesse il cordame e provò un tuffo al cuore. Era come tornare all'inizio.
«Credevo di non dover più viaggiare a cavalluccio», commentò con stizza e anche con una notevole dose di Detta nella voce.
«È l'unico sistema, credo», rispose Roland. «E sono contento di sentirmi di nuovo abbastanza forte da poterti portare.»
«E quel passaggio sotterraneo è l'unica via? Ne sei sicuro?»
«Immagino che potrebbe essercene un'altra attraverso il castello...» cominciò, ma Susannah stava già scuotendo la testa.
«Io sono stata in cima a quel castello con Mia, non te lo scordare. Dall'altra parte, nella Discordia, lo strapiombo sarà di due, trecento metri. Forse un tempo esistevano anche delle scale, ma ora non ci sono più.»
«Allora dobbiamo usare il tunnel», concluse lui, «e magari quando saremo dall'altra parte troveremo anche qualcosa su cui tu possa viaggiare. In un'altra città o in un altro villaggio.»
Susannah stava scuotendo di nuovo la testa. «Io credo che qui sia dove finisce la civiltà, Roland. E penso che faremo bene a coprirci il più possibile, perché farà freddo.»
Ma non c'erano indumenti pesanti. Chi si era preoccupato di fare scorta di viveri, non aveva pensato di impacchettare sotto vuoto maglioni e giacconi imbottiti. C'erano delle coperte, ma sebbene fossero state accuratamente riposte per essere conservate, il tempo le aveva rese fragili e sottili, quasi inutilizzabili.
«Oh, al diavolo tutto quanto», sospirò infine Susannah in tono rassegnato. «Vediamo di andarcene e basta.»
«Ce ne andremo», promise lui.
3
Susannah è a Central Park e fa abbastanza freddo da condensarle il fiato. Il cielo sopra di lei è tutto bianco, un cielo di neve. Sta guardando l'orso polare (che si rotola sul suo isolotto di roccia godendosi bellamente il gelo) quando una mano le scivola intorno alla vita. Labbra tiepide le schioccano un bacio sulla guancia fredda. Si gira e lì ci sono Eddie e Jake. Sorridono tutti e due, due sorrisi identici sotto quasi identici berretti rossi di lana. Su quello di Eddie c'è scritto BUON e su quello di Jake c'è scritto NATALE. Apre la bocca per dire loro: «Voi due non potete essere qui, perché siete morti», ma si accorge, con un grande e vibrante sollievo, che è stato solo un sogno. E in fondo come si potrebbe dubitarne? Non esistono animali parlanti che si chiamano bimboli, non proprio, non ci sono creature con corpo di uomo e testa di animale che si chiamano taheen, non esistono posti che si chiamano Fedic o Castello Discordia.
Sopratutto non esistono pistoleri. L'ultimo è stato John Kennedy, su questo aveva ragione Andrew, il suo chauffeur.
«Ti ho portato della cioccolata calda», dice Eddie e gliela porge. È una perfetta tazza di cioccolata calda, mit schlag in cima e con una spruzzata di noce moscata sulla panna; e lei ne sente il profumo, e mentre la prende sente le dita di lui dentro i guanti e fra loro volano i primi fiocchi di neve di quell'inverno. Pensa a quanto è bello essere viva nella buona vecchia New York di sempre, che bello che la realtà sia realtà, che loro siano insieme nell'anno di Nostro Signore...
Quale anno di Nostro Signore?
Aggrotta le sopracciglia, perché questo è un interrogativo serio, giusto? Eddie è un uomo degli anni Ottanta mentre lei non ha mai superato il 1964 (o era il '65?). Quanto a Jake, Jake Chambers con la parola NATALE sul gaio berretto di lana, non è forse degli anni Settanta? E se in tre che sono rappresentano tre diversi decenni della seconda metà del XX secolo, che cos'hanno in comune? Che anno è questo?
«DICIANNOVE», le risponde una voce dall'aria (forse la voce di Bango Skank, il Grande Personaggio Smarrito), «questo è il DICIANNOVE, questo è CHASSIT. Tutti i tuoi amici sono morti.»
A ogni parola il mondo diventa più irreale. Vede attraverso Eddie e Jake. Quando abbassa lo sguardo sull'orso polare vede che giace morto sul suo isolotto di pietra con le zampe all'aria. La fragranza della cioccolata calda si spegne sostituita da un odore muschioso: intonaco vecchio, legno antico. L'odore di una stanza d'albergo dove nessuno dorme da anni.
No, geme la sua mente. No, io voglio Central Park, io voglio il signor BUON e il signor NATALE, voglio sentire il profumo della cioccolata calda e voglio vedere i primi titubanti fiocchi di neve di dicembre, ne ho abbastanza di Fedic, Entro-Mondo, Medio-Mondo e Fine-Mondo. Io voglio il Mio-Mondo. Non m'importa se non vedrò mai la Torre Nera.
Le labbra di Eddie e Jake si muovono in sincronia, come se stessero cantando una canzone che lei non può sentire, ma non è una canzone; le parole che legge sulle loro labbra prima che il sogno si disunisca sono
4
«Attenta a Dandelo.»
Si destò con queste parole sulle labbra, rabbrividendo nella luce precoce che non era ancora quella dell'alba. E almeno la parte del sogno in cui vedeva il proprio fiato condensarsi era reale. Si tastò le guance e se le asciugò. Se non faceva abbastanza freddo da congelarle le lacrime sulla pelle, ci mancava poco.
Guardò lo squallore che la circondava in quella stanza del Fedic Hotel rimpiangendo con tutto il cuore che il suo sogno di Central Park non fosse diventato realtà. Tanto per cominciare aveva dovuto dormire sul pavimento, visto che il letto era praticamente uno scheletro arrugginito sul punto di disintegrarsi, e aveva la schiena irrigidita. Inoltre, nel sonno così agitato, aveva strappato ripetutamente sia le coperte che aveva usato per confezionarsi un giaciglio di fortuna che quella in cui si era avvolta. L'aria era densa della loro polvere, le faceva solletico al naso e le bruciava la gola, dandole l'impressione delle prime avvisaglie di un raffreddore di quelli brutali. A proposito di raffreddore, stava tremando. E aveva bisogno di orinare, il che significava trascinarsi per il corridoio sui moncherini e le mani intorpidite.
E niente di tutto questo angustiava veramente Susannah Odetta Holmes Dean quel mattino, giusto? Il vero problema era che era stata strappata dal bel sogno e ripiombata in un mondo
(è il DICIANNOVE, tutti i tuoi amici sono morti)
dov'era ora così sola da rischiare di uscirne matta. Il problema era che il lato del cielo che si andava rischiarando non era necessariamente a est. Il problema era che era stanca e triste, aveva nostalgia di casa e il cuore malato di umor nero, era in pena e depressa. Il problema era che, in quell'ora prima dell'alba, in quel pezzo da museo di stanza d'albergo di frontiera dove nell'aria vagavano fitte le fibre ammuffite delle coperte, si sentiva come se le avessero spremuto fuori l'ultima goccia di 'fanculo. Voleva tornare nel suo sogno.
Voleva Eddie.
«Vedo che sei sveglia anche tu», disse una voce e allora si girò su se stessa, puntellandosi sulla mani con una mossa così repentina da ferirsi con una scheggia.
Il pistolero era appoggiato allo stipite della porta che dava in corridoio. Aveva legato insieme le cinghie in quell'imbracatura che le era tanto familiare e se l'era già appesa alla spalla sinistra. Sulla destra aveva la sacca di pelle dove il loro nuovo bagaglio era andato a raggiungere i restanti Oriza. Ai suoi piedi sedeva Oy, a guardarla con un'espressione solenne.
«Mi hai messo addosso una fifa della Madonna, sai Deschain», lo accusò.
«Stavi piangendo.»
«Non ti riguarda né punto né poco se stavo piangendo o non stavo piangendo.»
«Andrà meglio quando saremo fuori di qui», la confortò lui. «Fedic è una città cagliata.»
Sapeva benissimo che cosa intendeva. Durante la notte il vento aveva rinforzato con furore e quando strideva lungo gli spioventi dell'albergo e del saloon accanto, le era sembrato di sentire strilli di bambini, bambini piccoli così persi nel tempo e nello spazio che mai avrebbero ritrovato la via di casa.
«D'accordo, ma prima che attraversiamo la strada ed entriamo in quel Dogan, Roland, voglio che tu mi prometta una cosa.»
«Quale promessa vuoi da me?»
«Se sembra che qualcosa stia per avere la meglio su di noi, qualche mostro sbucato dal Culo di Satana o uscito dalle intercapedini della contezza tra i mondi, tu mi pianti una pallottola in testa. Quando se la prenderà con te, potrai fare quello che ti pare, ma... cosa? Perché a me?» Roland le stava porgendo una delle rivoltelle.
«Perché io ormai posso usarne bene solo una. E perché non sarò io quello che ti toglierà la vita. Ma se deciderai di farlo tu stessa...»
«Roland, i tuoi scrupoli balordi non finiscono mai di stupirmi», lo interruppe lei. Poi prese la pistola con una mano e indicò l'imbracatura con l'altra. «Quanto a quel coso, se credi che sia disposta a infilarmici prima che ci sia costretta, non hai tutte le rotelle a posto.»
L'ombra di un sorriso gli sfiorò le labbra. «È un po' meglio quando ci sono io a farti un po' di compagnia, vero?»
Lei sospirò e annuì. «Un po' meglio, sì, ma tutt'altro che perfetto. Avanti, spilungone, togliamo le tende da qui. Ho un cubetto di ghiaccio al posto del culo e quest'odore mi sta facendo marcire le narici.»
3
Quando furono di nuovo all'interno del Dogan, Roland la issò sulla poltrona con le rotelle e la spinse fino alla prima rampa di scale, lasciando che fosse lei a trasportare in grembo i loro bagagli e la sacca di Oriza. In cima alle scale il pistolero spinse giù la poltrona con una pedata e, con Susannah puntellata sull'anca, ascoltò il rimbombo dei ripetuti tonfi con cui rotolò fino in fondo.
«E buonanotte al secchio», commentò lei quando il baccano finalmente cessò. «Tanto valeva che la lasciassi quassù, per quel che mi potrà servire ora.»
«Vedremo», rispose Roland cominciando a scendere. «Potresti rimanere sorpresa.»
«Quell'aggeggio sarà da sbatter via e lo sai benissimo», starnazzò Detta. Oy ci mise un breve latrato secco che stava per ben detto.
6
Ma la poltrona era veramente sopravvissuta al capitombolo. E resistette anche a quello successivo. Ma quando Roland si chinò a esaminare la poveretta dopo averla spinta giù per la terza (estremamente lunga) rampa di scale, vide che una delle rotelle era così storpiata da renderla inservibile. Gli ricordò un po' com'era la carrozzina abbandonata quando l'avevano ritrovata dopo la battaglia con i Lupi nell'East Road.
«Ecco, visto?» lo apostrofò lei e ridacchiò. «Te l'avevo detto. È ora che ti carichi in groppa la tua soma, Roland!»
Lui le lanciò un'occhiata. «Potresti mandar via Detta?»
Lei lo guardò meravigliata, poi ripeté mentalmente le ultime parole che aveva pronunciato. Arrossì. «Sì», rispose con una vocina contrita. «Dico scusa, Roland.»
Lui la sollevò da terra e la infilò nell'imbracatura. Poi ripresero il cammino. Per quanto sgradevole fosse l'atmosfera sotto il Dogan - per quanto inquietante fosse l'atmosfera sotto il Dogan - Susannah era comunque contenta di allontanarsi da Fedic. Perché significava anche che si stavano allontanando da tutto il resto: Lud, i Calla, Rombo di Tuono, Algul Siento; e anche New York e il Maine occidentale. Davanti a loro c'era il Castello del Re Rosso, ma riteneva che non dovevano preoccuparsene troppo, visto che il suo più celebre inquilino aveva dato fuori di matto ed era stato estromesso dalla Torre Nera.
Tutto ciò che era estraneo si andava dileguando. Tutto si andava riducendo alla fine del loro lungo viaggio e c'era poco altro di cui preoccuparsi. Era un bene. E se lungo la via fosse caduta vittima anche lei dell'ossessione di Roland? Ebbene, se dall'altra parte dell'esistenza (come per quasi tutta la vita aveva comunque creduto) c'erano solo tenebre, allora nulla era perduto, fintanto che non fossero tenebre di contezza, un posto pieno di mostri in agguato. E poi, che diamine, un aldilà c'era, un paradiso, una reincarnazione, magari addirittura una resurrezione nella radura in fondo al sentiero. Quest'ultima idea le piaceva e, dopo tutti i fatti prodigiosi di cui era stata testimone, non era più disposta a respingerla. Forse laggiù c'erano Eddie e Jake ad attenderla, belli imbacuccati e con i fiocchi di neve dell'inverno impigliati nella sopracciglia: il signor BUON e il signor NATALE che le offrivano cioccolata calda. Mit schlag.
Cioccolata calda a Central Park! Che cos'era mai la Torre Nera al confronto?
7
Attraversarono la rotonda con le sue molte porte; giunsero infine a un ampio passaggio sul cui muro c'era il cartello con la scritta MOSTRARE SOLO PASS ARANCIONE, NON SI ACCETTANO PASS BLU. Più avanti, nella luce di uno dei tubi al neon ancora funzionanti (e vicino al mocassino di gomma abbandonato), scorsero qualcosa stampato sul rivestimento di piastrelle della parete e deviarono per andare a leggere.
Sotto il messaggio principale avevano firmato con i loro nomi: Fred Worthington, Dani Rostov, Ted Brautigan e Dinky Earnshaw. Sotto i nomi c'erano altre due righe scritte da un'altra mano. Susannah pensò fosse quella di Ted e leggerle le fece venire voglia di piangere:
«L'amore di Dio», mormorò Susannah con la voce roca. «Che li accompagni l'amore di Dio e li protegga tutti.»
«G-utti», le fece eco dal basso una vocetta timida. Entrambi guardarono giù.
«Hai deciso di rimetterti a parlare, zuccherino?» chiese Susannah, ma a questo Oy non rispose. Sarebbero trascorse settimane prima che parlasse di nuovo.
8
Due volte si persero. In un caso fu Oy a ritrovare la via nel dedalo di tunnel e corridoi, alcuni percorsi dai lamenti di lontane correnti d'aria, altri animati da suoni più vicini e minacciosi; e la seconda volta fu Susannah a ritrovare l'orientamento dopo aver scorto la carta di una barretta Mounds lasciata cadere da Dani. Ad Algul c'erano ingenti scorte di dolciumi e la bambina ne aveva portato con sé un buon quantitativo. («Ma non un solo ricambio di vestiti», osservò Susannah con una risata e una scrollata di testa.) A un certo punto, davanti a una vecchia porta di legno fantasma che ricordò a Roland quelle che aveva trovato sulla spiaggia, udirono un poco rassicurante rumore di masticazione. Susannah cercò di immaginare che cosa potesse produrre un suono come quello e non le venne in mente altro che una gigantesca bocca priva di un corpo e piena di zanne gialle sudice di terra. Sulla porta c'era un simbolo indecifrabile. Solo vederlo la metteva a disagio.
«Tu sai che cosa dice?» chiese. Roland, che parlava cinque o sei lingue e ne capiva molte altre, scosse la testa. Susannah ne fu contenta. Temeva che chi fosse stato capace di leggere quel simbolo, lo avrebbe fatto a voce alta. Forse sarebbe stato costretto a farlo. Dopodiché la porta si sarebbe aperta. Sarebbe venuta voglia di scappare dopo aver visto che cosa c'era a masticare dall'altra parte? Probabilmente. Sarebbe stato possibile scappare?
Forse no.
Poco più avanti di quella porta scesero un'altra rampa di scale, più breve. «Mi sa che ieri quando ne abbiamo parlato mi ero dimenticata di questa, me la ricordo ora», annunciò Susannah indicando la polvere smossa sui gradini. «Guarda, ci sono le nostre impronte. È stato Fred a portarmi giù e Dinky a riportarmi su. Siamo quasi arrivati, Roland, te lo giuro.»
Ma si perse di nuovo nell'intrico delle gallerie in fondo alle scale e fu allora che li soccorse Oy, prendendo al trotto un tunnel buio nel quale il pistolero dovette camminare curvo con Susannah aggrappata al collo.
«Non so se...» cominciò Susannah e fu allora che Oy sbucò davanti a loro in un corridoio più luminoso (relativamente più luminoso: metà delle plafoniere erano spente e molte della piastrelle erano cadute dalle pareti, lasciando rettangoli di intonaco scuro e umido). Il bimbolo si sedette in un punto dove il terreno era cosparso di tracce confuse e guardò come a chiedere: È questo che volevate?
«Sì», disse Susannah evidentemente risollevata. «Benissimo. Guarda, come ti avevo detto.» Indicò a Roland la porta con scritto: FORD'S THEATER, 1865 VENITE A VEDERE L'ASSASSINIO DI LINCOLN. Accanto, protetto da un vetro, c'era un manifesto di Our American Cousin che sembrava stampato il giorno prima. «Quello che vogliamo è poco più avanti. Seconda a sinistra e prima a destra... credo. Comunque, quando lo vedo lo riconosco.»
Per tutto il tempo Roland era stato paziente con lei. Nascondeva un brutto pensiero che non aveva voluto rivelare a Susannah: che il labirinto di gallerie e corridoi sotterranei fosse mutevole, come lo erano i punti cardinali in quello che aveva mentalmente ribattezzato «il mondo superiore». Se così era, la situazione era critica.
Faceva caldo là sotto e presto avevano preso a sudare copiosamente tutti e due. Oy ansimava costantemente come un piccolo stantuffo, ma non per questo perdeva il passo del pistolero. Ora non c'era più polvere sul terreno e le orme che avevano ritrovato ogni tanto in precedenza non c'erano più. I suoni che provenivano da dietro le porte erano invece più forti e, passando davanti a una di esse, qualcosa sull'altro lato colpì l'uscio con tanta violenza da farlo tremare nel telaio. Oy abbaiò, abbassando le orecchie contro il cranio, e Susannah si lasciò sfuggire un gridolino.
«Calma», li rassicurò Roland. «Non può abbattere la porta. Nessuno può uscire.»
«Ne sei certo?»
«Sì», ribadì con fermezza il pistolero. Non era per niente certo. Gli sovvenne un modo di dire di Eddie: capitolo chiuso.
Girarono intorno alle pozzanghere, stando attenti a non sfiorare quelle che emettevano luce che poteva essere di radiazioni o magia. Passarono davanti a una tubatura rotta che esalava un morbido pennacchio di vapore verde e Susannah suggerì di trattenere il fiato finché non fossero stati abbastanza lontani. Roland la giudicò un'ottima idea.
Trenta o quaranta metri più avanti Susannah lo fermò. «Non so, Roland», disse e lui si accorse dalla voce dello sforzo che faceva per dominare il panico. «Quando ho visto la porta di Lincoln credevo che fossimo ormai sulla buona strada, ma ora... ora questo...» Le mancò la voce e Roland la sentì prendere fiato e lottare per mantenere la calma. «Questo sembra tutto diverso. E i rumori... questo modo che hanno di entrarti nella testa...»
Sapeva che cosa intendeva. Alla loro sinistra c'era una porta anonima parzialmente scardinata e dalla fessura sovrastante usciva un'accozzaglia atonica di campanelle di contezza, un suono insieme orribile e affascinante. Assieme al tintinnio usciva anche una corrente costante di aria cattiva. Roland sentì che Susannah stava per proporre di tornare indietro finché erano in tempo, rivedere magari tutto quanto il loro progetto di passare sotto il castello, così scelse di precederla: «Vediamo che cosa c'è laggiù. Dov'è comunque un po' più chiaro».
A pochi passo da un incrocio da cui gallerie e corridoi piastrellati si irraggiavano in tutte le direzioni, Roland la sentì muoversi nell'imbracatura per protendersi. «Là!» gridò Susannah. «Quel cumulo di macerie! Ci siamo passati attorno! Da quella parte, Roland, me lo ricordo!»
Al centro dell'incrocio era crollato un pezzo del soffitto che aveva dato origine a una montagnola di cocci di piastrelle e vetro, cavi elettrici e semplici calcinacci. C'erano delle orme lungo un lato.
«Per di là!» continuò Susannah infervorata. «Da quella parte! Ted ha detto: 'Credo che questa sia quella che chiamavano Main Street' e anche Dinky era dello stesso parere. Dani Rostov ha detto che molto tempo fa, più o meno all'epoca in cui il Re Rosso fece chissà come calare le tenebre su Rombo di Tuono, molta gente usava quel passaggio per uscire. Solo che lasciavano indietro alcuni dei loro pensieri. Le ho chiesto che sensazione dava e lei mi ha risposto che era un po' come vedere la schiuma di sapone sporca lungo il bordo della vasca dopo che hai fatto il bagno. 'Non bella', ha detto. Abbiamo preso nota di questo punto di riferimento e siamo tornati fino all'infermeria. Non voglio cantar vittoria, ma credo che ce l'abbiamo fatta.»
E così fu, almeno per il momento. Ottanta passi oltre il cumulo di macerie trovarono un'apertura ad arco. Dall'altra parte, appesi al soffitto, tremolanti globi di luce bianca proseguivano per una discesa angolata. Sulla parete, scritto con colpi di gesso che già cominciavano a sciogliersi nell'umidità che filtrava dalle piastrelle, c'era l'ultimo messaggio lasciato dai Frangitori liberati:
Lì riposarono un po', mangiando manciate di uva passa da un barattolo sotto vuoto. Ne mangiucchiò qualcuna anche Oy, anche se era chiaro che non gli piaceva molto. Quando ebbero finito, Roland ripose il barattolo nella sacca di pelle delle loro scorte. «Pronta a riprendere?» le chiese.
«Sì. E subito, direi, prima di perdere... mio Dio, Roland, cos'è stato?»
Dietro di loro, probabilmente da una delle gallerie che partivano dall'incrocio dov'era caduto il soffitto, giunse un tonfo sommesso. Fu accompagnato da un sottofondo simile a uno sciacquio, come se un gigante con gli stivali pieni di acqua avesse appena compiuto un passo.
«Non lo so», le rispose.
Susannah guardava ansiosa dietro di loro ma vedeva solo ombre. Alcune si muovevano, ma poteva essere un effetto ottico provocato dal vacillare delle luci.
Poteva essere.
«Sai», mormorò, «penso che potrebbe essere una buona idea se abbandonassimo questo posticino ameno il più in fretta possibile.»
«E io penso che tu abbia ragione», ribatté lui puntando sul terreno un ginocchio e le dita aperte della mano come un velocista che si accinge a scattare dai blocchi. Quando lei fu di nuovo nell'imbracatura, si alzò in piedi e passò oltre la freccia disegnata sul muro, assestandosi su un passo sostenuto che era quasi in corsa.
9
Procedevano a quel piccolo trotto da una quindicina di minuti quando s'imbatterono in uno scheletro che indossava i resti di una divisa militare mezzo marcia. Sulla testa aveva un lembo di cuoio capelluto da cui uscivano inerti capelli neri. Il suo ghigno di morte sembrava un benvenuto nell'altro mondo. Per terra, accanto al bacino scarnificato del morto c'era l'anello che con il tempo gli era scivolato da una delle dita in putrefazione della mano destra. Susannah chiese a Roland se poteva guardarlo da vicino. Lui lo raccolse e glielo consegnò. Lei lo esaminò trovando conferma a ciò che aveva pensato, poi lo buttò via. Fece un lieve tintinnio, poi rimase solo il suono dell'acqua che gocciolava e quello delle campanelle della contezza, più ovattate ora, ma persistenti.
«Quel che pensavo», commentò.
«Vale a dire?» domandò lui riprendendo il cammino.
«Il tizio era un Elk. Anche mio padre aveva un anello così.»
«Elk? Non capisco.»
«Una confraternita. Una specie di ka-tet di vecchi amici. Ma che cosa ci faceva un Elk quaggiù? Assistenza ai viaggiatori?» E le scappò una risata un tantino stranita.
Il gas luminoso che riempiva le sfere appese al soffitto pulsava ritmicamente, ma a un andamento che non era costante. Susannah avvertì qualcosa di particolare, e dopo un po' capì di che cosa si trattava. Quando Roland allungava il passo, le pulsazioni acceleravano. Quando rallentava (senza mai fermarsi ma misurando comunque il consumo delle sue energie), rallentavano anche le pulsazioni dei globi. Non pensava che corrispondessero al suo battito cardiaco o al proprio, ma che comunque nel fenomeno ci fosse un'analogia. (Se avesse conosciuto il termine «bioritmo», avrebbe scelto quello.) Cinquanta metri più avanti di ciascun punto in cui venivano a trovarsi, Main Street era buia. Poi, una dopo l'altra, le luci si accendevano al loro approssimarsi. Era ipnotico. Si girò a guardare, solo una volta per non rischiare di fargli perdere l'equilibrio, e vide che, sì, a distanza di una cinquantina di metri da loro le luci si spegnevano. Quelle luci erano molto più intense di quelle che brillavano a fatica all'ingresso di Main Street, le quali evidentemente erano alimentate da un'altra fonte, quella che, come quasi tutto il resto di quel mondo, cominciava a esaurirsi. Poi notò che uno dei globi ai quali si stavano avvicinando rimaneva spento. Quando ci passarono sotto, vide che non era completamente morto; all'interno brillava fievole un nucleo centrale, in sintonia con i battiti dei loro corpi e i loro cervelli. Gli ricordò come talvolta si vedono insegne al neon dove una o più lettere sono bruciate, così COCA-COLA diventa OCA-COLA oppure TRATTORIA si trasforma in RATTORIA. Una trentina di passi ancora ed ecco un altro globo spento, poi un altro, poi due in fila.
«Facile che fra non molto saremo al buio», commentò contrariata.»
«Lo so», rispose Roland. Stava cominciando a essere a corto di fiato.
L'aria era ancora umida e il caldo si andava gradatamente stemperando. Alle pareti erano appesi dei manifesti perlopiù così marci da essere ormai indecifrabili. Su un tratto di muro asciutto Susannah vide la raffigurazione di un uomo che aveva appena perso la sua battaglia contro una tigre in un'arena. Il grande felino stava strappando brani d'intestini dal ventre della vittima urlante davanti a una folla in delirio. Lo slogan era riprodotto in una decina di lingue diverse. L'inglese era la seconda in ordine decrescente. VISITATE IL CIRCUS MAXIMUS! VI DIVERTIRETE! diceva.
«Cristo, Roland», gemette Susannah. «Cristo santo, cos'erano?»
Roland non rispose, anche se avrebbe potuto: erano un folken impazzito.
10
Brevi rampe di scalini a intervalli di cento metri, la più lunga delle quali non ne contava più di dieci, li portarono sempre più giù nelle viscere della terra. Dopo che ebbero percorso un tratto che Susannah calcolò pari a un quarto di miglio, arrivarono a un cancello che era stato divelto, forse da un veicolo, e fatto a pezzi. Lì c'erano altri scheletri, in numero tale che Roland dovette calpestarne alcuni per passare oltre. Invece di scricchiolare sgretolandosi, le ossa facevano un rumore liquido che era anche peggio. L'odore che saliva da quell'ossario era untuoso. Gran parte delle piastrelle che si trovavano in corrispondenza di quei resti umani erano saltate via e quelle che c'erano ancora erano bucherellate di colpi d'arma da fuoco. Una sparatoria, dunque. Susannah aprì la bocca per dire qualcosa in proposito, ma prima che potesse parlare si udì di nuovo quel tonfo cupo. Questa volta le parve un po' più forte. Un po' più vicino. Guardò di nuovo indietro e non vide nulla. A cinquanta metri le luci continuavano a spegnersi come prima.
«Non vorrei sembrarti paranoica, Roland, ma mi sa che siamo pedinati.»
«Lo so.»
«Non vuoi sparare un colpo? O lanciare un piatto? Quel sibilo può essere molto minaccioso.»
«No.»
«Perché?»
«Potrebbe non sapere che cosa siamo. Se sparo, lo saprà.»
Le ci volle un momento per rendersi conto del vero significato delle sue parole: non era sicuro che le pallottole o un Oriza potessero fermare il loro inseguitore. O, peggio ancora, forse era sicuro che non lo potessero fare.
Quando parlò di nuovo, ce la mise tutta per sembrare calma, e si ritenne moderatamente soddisfatta del risultato. «È qualcosa uscito da quella crepa, pensi?»
«Possibile», le concesse Roland. «Ma potrebbe essere qualcosa arrivato dallo spazio della contezza. E adesso zitta.»
Il pistolero allungò il passo, mettendosi finalmente a correre. Susannah era sorpresa dalla mobilità che mostrava ora che era scomparso il dolore che gli aveva tormentato l'anca, ma sentiva anche la sua respirazione, oltre che percepirla dal movimento della sua schiena: inspirazioni veloci, affannate, seguite da espirazioni brusche che sembravano quasi esclamazioni di stizza. Avrebbe dato chissà che cosa per poter correre al suo fianco sulle proprie gambe, le gambe forti che Jack Mort le aveva portato via.
I globi sospesi ora pulsavano più rapidamente ed era più facile notarlo perché il loro numero era diminuito. Negli intervalli la loro ombra comune prima si allungava davanti a loro, poi si accorciava a mano a mano che si avvicinavano alla fonte luminosa successiva. L'aria era più fresca; il rivestimento di ceramica del pavimento sempre meno uniforme. In alcuni punti si era crepato e i tratti sconnessi erano altrettante trappole per il passo imprudente. Oy evitava le insidie senza difficoltà e almeno fino a quel momento era riuscito a salvarsi anche Roland.
Stava per dirgli che da qualche tempo non sentiva più il loro inseguitore, quando qualcosa alle loro spalle risucchiò fiato in un sospiro profondo. Sentì l'aria intorno a loro che scorreva all'indietro; sentì i riccioli compatti che aveva sulla testa strattonati dalla corrente. Uno spaventoso suono che era quasi un gargarismo per poco non le strappò un urlo di terrore. Qualunque cosa fosse la creatura dietro di loro era grossa.
No.
Enorme.
11
Scesero volando per una di quelle brevi rampe di scale. Cinquanta metri più avanti c'erano altri tre globi che pulsavano di luce incostante, ma dopo di essi solo tenebre. Le irregolari pareti piastrellate del passaggio e il pavimento sconnesso si fondevano in un nero così profondo che sembrava una sostanza fisica: grandi rotoli di feltro nero raggruppati in una massa scomposta. Ci si sarebbero buttati dentro, pensò, e all'inizio lo slancio li avrebbe sostenuti. Poi la materia nera li avrebbe respinti come una molla e la creatura che li inseguiva sarebbe stata loro addosso. Lei avrebbe avuto il tempo di scorgerla per un istante, qualcosa di così orribile e alieno che la sua mente non sarebbe stata capace di riconoscerla, e forse sarebbe stato un atto di divina misericordia. Poi l'attacco e...
Roland si tuffò nel buio senza rallentare e naturalmente non furono rimbalzati all'indietro. Dapprincipio ci fu un po' di luce, proveniente in parte da tergo e in parte dai globi sovrastanti (alcuni dei quali emettevano ancora gli ultimi palpiti di una radiazione morente). Quanto bastava che vedessero un'altra breve rampa, presidiata da scheletri semidisintegrati sui quali pendevano brandelli di indumenti. Roland scese veloce i gradini, nove in tutto, senza mai fermarsi. Oy corse al suo fianco, con le orecchie schiacciate e il pelo che s'increspava con i movimenti sinuosi di un galoppo che sembrava una danza. Poi furono immersi nel buio più profondo.
«Abbaia, Oy, così non finiamo uno nell'altro!» comandò Roland. «Abbaia.»
Oy abbaiò. Trenta passi più avanti rinnovò il suo ordine e Oy abbaiò di nuovo.
«Roland... e se c'è un'altra rampa di scale?»
«Ci sarà», rispose lui e, dopo una conta di novanta passi ancora, la trovarono. Susannah lo sentì inclinarsi in avanti sui piedi improvvisamente incerti. Sentì la contrazione dei muscoli delle sue spalle quando protese le mani nell'oscurità, ma non caddero. Susannah poté solo prendere nota dei suoi incredibili riflessi. I suoi stivali alzarono echi di passi sicuri nella discesa. Dodici gradini questa volta? Quattordici? Poi furono di nuovo su un fondo pianeggiante prima che potesse riprendere a contare. Dunque ora sapeva che era capace di scendere le scale anche al buio, persino correndo all'impazzata. Ma se avesse infilato il piede in una buca? Dio sapeva quant'era possibile, su quel pavimento così dissestato. O se invece avessero incontrato una barricata di scheletri? In una galleria come quella, alla velocità alla quale stavano correndo adesso, sarebbe costato loro quanto meno un brutto ruzzolone. E se invece fossero rovinati in un ammasso di ossa in cima a una di quelle piccole rampe di scale? Cercò di respingere l'immagine di Roland che si lanciava nell'oscurità come un tuffatore storpio e non ci riuscì del tutto. Quante delle loro ossa sarebbero andate in pezzi quando si fossero schiantati sul fondo? Cazzo, tesoro, scegli un numero a caso, avrebbe detto Eddie. Quella corsa mozzafiato era una follia.
Ma non avevano scelta. Ora sentiva fin troppo distintamente la cosa che li inseguiva, non solo il suo respiro gorgogliante, ma un raspare come di carta vetrata di qualcosa che striscia contro una delle pareti... o entrambe. Ogni tanto sentiva anche il rintocco tintinnante di una piastrella strappata via. Era impossibile non costruire una figura sulla scorta di quei rumori e ciò che Susannah cominciò a vedere fu un enorme verme nero il cui corpo segmentato riempiva la galleria da parte a parte, scalzando le mattonelle allentate e stritolandole sotto la sua massa gelatinosa e famelica che, arrancando, riduceva di momento in momento la distanza che lo separava da loro.
E sempre più velocemente ormai. Susannah credeva di sapere perché. Prima correvano in una mobile isola di luce. All'essere che li braccava evidentemente la luce non piaceva. Pensò alla torcia che Roland aveva messo nel loro bagaglio, ma senza batterie nuove, era praticamente inservibile. Nemmeno venti secondi dopo aver fatto scattare l'interruttore sul suo lungo cilindro e addio luce.
Però...
Un momento.
Il cilindro.
Il lungo cilindro!
Susannah infilò la mano nella sacca di pelle che sobbalzava contro il fianco di Roland. Trovò scatolette di alimenti, ma non erano quelle che cercava. Finalmente trovò uno dei barattoli giusti che riconobbe dalla guarnizione di gomma che ne avvolgeva l'estremità. Non ebbe tempo di riflettere sul perché quel contatto le sembrò così immediatamente e intimamente familiare; Detta aveva i suoi segreti e uno di essi aveva evidentemente a che fare con lo Sterno. Annusò il contenitore per avere conferma di aver trovato l'oggetto giusto e prontamente se lo picchiò sul naso quando Roland inciampò in qualcosa, forse un calcinaccio, forse uno scheletro, e dovette lottare di nuovo per non perdere l'equilibrio. Questa volta la ebbe vinta, ma prima o poi avrebbe perso e la cosa dietro di loro avrebbe potuto aggredirli prima che avesse avuto il tempo di rialzarsi. Sentì il sangue che cominciava a scenderle per la faccia e la cosa alle loro spalle, forse per averlo fiutato, fece un terrificante verso, liquido di vorace acquolina. Pensò a un gigantesco alligatore in una palude della Florida, che alzava la testa squamosa per bramire alla luna. Ed era così vicino.
Oh Dio del cielo dammi tempo, pregò. Non voglio andarmene così, ammazzata da un colpo di fucile è una cosa, ma mangiata viva nel buio...
Era un'altra.
«Più veloce!» gridò a Roland e gli batté i fianchi con le cosce, come un'amazzone che incita un cavallo stanco.
E Roland accelerò. La sua respirazione era ormai un rantolare affranto. Non si era ridotto così neppure dopo aver ballato la Gommala. Andando avanti in quel modo gli sarebbe scoppiato il cuore. Ma...
«Dacci dentro! Dai tutto quello che hai, dannazione! Potrei avere un asso nella manica, ma intanto tu devi sputare l'anima!»
E lì, nelle tenebre sotto Castello Discordia, Roland la sputò.
12
Susannah affondò di nuovo la mano libera nella sacca e la chiuse sul cilindro della torcia. La estrasse e se la incastrò sotto l'ascella (se se la fosse lasciata sfuggire erano fritti), quindi strappò la linguetta del barattolo di Sterno, felice di sentire il breve sibilo dell'aria che entrava nel contenitore sottovuoto. Felice ma non sorpresa: se il sigillo fosse stato rotto in precedenza, da tempo ormai la gelatina infiammabile che conteneva il barattolo sarebbe evaporata e il barattolo sarebbe stato molto più leggero.
«Roland!» gridò. «Roland, ho bisogno di un fiammifero.»
«Camicia... tasca!» ansimò lui. «Prendili tu!»
In quel momento la torcia le scivolò in grembo, dove le sue cosce divaricate aderivano alla schiena di Roland. L'afferrò prima che potesse cascare per terra. Ora, stringendola bene nella mano, la conficcò nel barattolo di Sterno. Per pescare i fiammiferi dal taschino e reggere contemporaneamente il barattolo e la torcia sporca di gelatina avrebbe avuto bisogno di una terza mano, così gettò via il barattolo. Ce n'erano altri due nella sacca, ma se il suo stratagemma non avesse funzionato, non avrebbe avuto la possibilità di tentare di nuovo.
L'essere ruggì e questa volta le sembrò che fosse a pochi passi da loro! Ora ne sentiva l'odore, quello di una cassetta di pesce che marcisce al sole.
Passò il braccio sopra la spalla di Roland e prese un solo fiammifero dal taschino. Avrebbe avuto forse il tempo di accenderne uno, non due. Roland e Eddie erano capaci di accenderli con l'unghia del pollice, ma Detta Walker conosceva un trucchetto che valeva doppio e che aveva usato in più di un'occasione per far colpo sulle sue vittime dalla pelle bianca nei poco rispettabili locali che frequentava. Arricciò le labbra e premette la capocchia del fiammifero contro la fessura tra i due incisivi superiori. Eddie, se ci sei, aiutami, dolcezza... aiutami a non sbagliare.
Sfregò. Sentì il calore della fiamma sul palato e il sapore di zolfo sulla lingua. Per poco la fiammata non accecò i suoi occhi abituati al buio, ma riuscì a veder abbastanza bene da avvicinare il fiammifero acceso alla gelatina che rivestiva il cilindro della torcia elettrica. Lo Sterno s'incendiò. La luce non era un granché, ma era meglio di niente.
«Girati!» gridò.
Roland si fermò all'istante - niente domande, niente proteste - e ruotò su se stesso. Susannah protese la fiaccola di fortuna nell'oscurità dietro di loro e per un momento videro entrambi la testa di un essere grondante e costellato di occhi rosa da albino. Sotto quella miriade di occhi c'era una bocca grande come una botola, nella quale si contorcevano un numero indefinito di tentacoli. La luce dello Sterno era modesta, ma in quell'oscurità stigia bastò perché la creatura si ritraesse. Prima che scomparisse nuovamente nelle tenebre, Susannah vide tutti quegli occhi chiudersi precipitosamente ed ebbe un momento per considerare quando dovessero essere sensibili se bastava quel lume stentato a...
Lungo entrambe le pareti di quella galleria erano ammucchiate ossa in quantità. L'estremità della torcia dalla parte della lampadina, dove lei la impugnava con la mano, stava già cominciando a riscaldarsi. Oy abbaiava frenetico, con gli occhi fissi nel buio dietro di loro, la testa abbassata, le corte zampe divaricate, il pelo irto sulla schiena.
«Abbassati, Roland, abbassati!»
Lui ubbidì e lei gli passò la torcia, le cui fiammelle gialle tingevano di blu il cilindro d'acciaio cominciando a vacillare. La creatura mandò un altro assordante ruggito nel buio e Susannah ne scorse di nuovo la sagoma che, dondolando da parte a parte, stava riguadagnando terreno a mano a mano che la luce si smorzava.
Se qui il pavimento è bagnato, non ce la caveremo, pensò, ma fu confortata da quello che sentì sotto i polpastrelli della mano con la quale cercava a tentoni un femore. Forse era la speranza a inviare al suo cervello messaggi falsificati, visto che sentiva benissimo l'acqua che gocciolava dal soffitto poco lontano da loro, ma poteva solo augurarsi che così non fosse.
Pescò dalla sacca un altro barattolo di Sterno, ma sulle prime non riuscì a trovare la linguetta. La creatura stava arrivando e ora vide un gran numero di corte zampe deformi sotto il testone. Non era un verme, dunque, ma una specie di mastodontico centopiedi. Oy si piazzò davanti a lei, continuando ad abbaiare e a mostrare i denti. Sarebbe stato lui la prima vittima del mostro se lei non fosse riuscita...
Poi un dito entrò nell'anello della linguetta non del tutto appiattita sul coperchio del barattolo. Si udì il sibilo. Roland agitava la fiaccola cercando di resuscitare un po' le fiamme morenti (e l'espediente avrebbe avuto anche successo se ci fosse stato altro combustibile da consumare) e Susannah vide le loro ombre sempre più sfocate danzare all'impazzata sulle pareti piastrellate.
La testa dell'osso era più grossa del barattolo. Nella scomoda posizione in cui si trovava, per metà dentro e per metà fuori dell'imbracatura, intinse la mano nella gelatina e la spalmò sul femore, Se l'osso era bagnato, avrebbero guadagnato solo pochi secondi prima di una fine orribile. Se era asciutto, invece, allora forse... forse...
La creatura si era avvicinata ancora. In mezzo ai tentacoli che le si agitavano nella bocca spuntavano zanne inclinate all'infuori. Ancora un istante e sarebbe stata abbastanza vici' na da assalire Oy, catturandolo con la velocità di un geco che ingoia una mosca al volo. Il puzzo di pesce marcio era forte e nauseante. E che cos'altro ancora poteva esserci dietro a quel mostro? Quali altre abominevoli creature?
Ma non era il momento di pensarci.
Avvicinò il femore al residuo di fiamme che si stavano spegnendo sul cilindro della torcia elettrica. L'accensione fu più esplosiva di quel che si era aspettata, molto di più, e l'urlo che gridò questa volta la creatura era pieno di dolore oltre che di sorpresa. Udirono un orribile rumore liquido, come di fango spremuto in un impermeabile di vinile, poi la creatura indietreggiò in tutta fretta.
«Dammi delle altre ossa», gridò Susannah mentre Roland si sbarazzava della torcia elettrica. «E che siano ossa secche.» Rise della propria battuta di spirito (visto che nessun altro lo avrebbe fatto): un tipico sghignazzo sarcastico da Detta Walker.
Sempre ansimando, Roland fece come gli era stato chiesto.
13
Ripresero la marcia. Ora Susannah viaggiava girata all'indietro, una posizione difficile ma non impossibile. Se fossero riusciti a uscire vivi da lì, per un giorno o due la schiena gli avrebbe fatto un male pazzesco. E saranno le fitte più deliziose della mia vita, pensò. Roland aveva ancora la T-shirt che aveva comprato per lui Irene Tassenbaum, quella con la scritta BRIDGTON OLD HOME DAYS. La passò a Susannah, che l'avvolse all'estremità dell'osso. Appesa al dorso di Roland, tese il più possibile l'osso fiammeggiante verso le tenebre alle loro spalle, fin dove riusciva senza perdere l'equilibrio. Roland non era in grado di correre - se ci avesse provato, Susannah sarebbe sicuramente ruzzolata fuori dell'imbracatura - ma manteneva un'andatura sostenuta, fermandosi ogni tanto a raccogliere qualche altra tibia o femore che gli sembrasse promettente. Il mostro continuò a seguirli. Di tanto in tanto Susannah scorgeva uno scampolo della sua pelle viscida e anche quando si ritraeva dalla luce stentata della sua nuova fiaccola, entrambi continuavano a sentire quei tonfi liquidi come di un gigante che cammina in stivali pieni di fango. Susannah cominciò a pensare che fosse il rumore della sua coda. Quest'ipotesi la riempì di un orrore irragionevole e intimo e quasi tanto potente da sconvolgerla.
Una coda! delirò la sua mente. Una coda che fa un rumore come se fosse piena d'acqua o gelatina o sangue mezzo coagulato. Cristo! Mio Dio! Madonna santa!
Non era solo la luce a trattenerlo dall'attaccare, rifletté, ma anche la paura del fuoco. Doveva essersi tenuto a distanza quando erano ancora nel tratto di galleria dov'erano in funzione i globi fluorescenti, pensando (se poteva pensare) di aspettare ad aggredirli quando fossero stati nel buio. Sospettava che se avesse saputo che avevano del fuoco a disposizione, avrebbe semplicemente chiuso alcuni o tutti i suoi molti occhi e sarebbe saltato loro addosso nel tratto in cui alcuni dei globi erano spenti e la luce era più fioca. Ora gli stava buttando male, almeno temporaneamente, perché le ossa si erano mostrate sorprendentemente efficienti come fiaccole (non le sfiorò la mente l'idea che in questo potesse essere stato d'aiuto il Vettore convalescente). Restava da vedere se avevano Sterno a sufficienza. Ora era in grado fare economia, perché una volta accese, le ossa bruciavano del proprio - eccetto un paio un po' umide che era stata costretta a scartare dopo aver acceso la fiaccola successiva con la loro ultima fiammella agonizzante - ma bisognava pur sempre innescarle e stava ormai arrivando al fondo del terzo e ultimo barattolo. Rimpiangeva amaramente quello che aveva gettato via quando il mostro era a pochi passi da loro; d'altra parte che cos'altro avrebbe potuto fare? Avrebbe anche voluto che Roland corresse più veloce, anche se si rendeva conto che ormai più che tanto non avrebbe potuto dare, nemmeno se lei fosse stata girata dalla parte giusta e ben aggrappata al suo collo. Qualche decina di metri, forse ma niente di più. Sentiva i suoi muscoli tremare sotto la camicia. Stava per scoppiare.
Cinque minuti dopo, quando affondò la mano nel barattolo per prelevare gelatina da spalmare sul bulbo di una tibia, toccò il fondo. Dall'oscurità dietro di loro giunse un altro di quei tonfi acquosi. La coda del loro amico, insisté la sua mente. Manteneva il loro passo. Aspettava che rimanessero senza combustibile e che il mondo ripiombasse nel buio. Poi avrebbe sferrato il suo attacco.
Poi avrebbe mangiato.
14
Avrebbero avuto bisogno di una posizione di ripiego. Lo capì nel momento in cui la punta delle sue dita toccò il fondo del barattolo. Dieci minuti e tre fiaccole più tardi, Susannah si preparò a dire al pistolero di fermarsi, quando e se, avessero trovato un altro ossario ben rifornito. Avrebbero acceso un falò con ossa e stracci e quando fosse stato ben avviato, se la sarebbero data semplicemente a gambe con quanto fiato Roland aveva ancora in corpo. Quando, e se, avessero sentito di nuovo il mostro e saputo quindi che aveva superato anche l'ultima barriera di fuoco, Roland avrebbe potuto abbandonare il suo carico e continuare la fuga lasciandola lì. Considerava questa prospettiva non un sacrificio, ma semplicemente un'esigenza dettata dalla logica. Non c'era ragione perché il mostruoso centopiedi dovesse divorarli entrambi. E comunque non aveva in animo di lasciarsi prendere, se doveva finire così. Certamente non viva. Aveva la pistola e l'avrebbe usata. Cinque colpi per Sai Centopiedi; e se ancora non fosse bastato, il sesto colpo era per sé.
Prima che potesse dire tutto questo, però, Roland pronunciò tre parole che le chiusero la bocca. «Luce», rantolò. «Avanti.»
Susannah torse il collo e lì per lì non scorse niente, probabilmente per via della fiaccola che aveva in mano. Poi vide: un debole bagliore biancastro.
«Altri globi?» domandò. «Una fila che funziona ancora?»
«Forse. Ma non credo.»
Cinque minuti dopo Susannah si accorse di riuscire a scorgere il pavimento e le pareti nella luce della sua ultima fiaccola. Il pavimento era coperto da uno strato sottile di polvere e pietrisco che poteva essere stato spinto dentro solo dal vento esterno. Susannah alzò verso il soffitto le braccia, sempre stringendo nella mano un osso fiammeggiante avvolto nella maglietta, e lanciò un grido di trionfo. La cosa dietro di loro rispose con un ruggito di furore e frustrazione, che le fece del bene al cuore sebbene le accapponasse anche la pelle.
«Addio, tesoro!» gridò. «Addio, occhiuto figlio di puttana!»
Il mostro ruggì di nuovo e si lanciò all'attacco. Per un momento riuscì a vederlo bene: un'enorme massa arrotondata che non si sarebbe potuta definire faccia nonostante la presenza di quella bocca mutevole, il corpo segmentato, pieno di graffi e perdite per via della continua frizione contro la superficie ruvida delle pareti, un quartetto di tozze appendici anteriori, due per parte. Terminavano in pinze che si chiudevano e riaprivano convulsamente, Susannah strillò spingendo la fiaccola più in là possibile, e il mostro si ritrasse con un altro ruggito assordante.
«Tua madre non ti ha mai detto che non bisogna stuzzicare gli animali?» le chiese Roland e il suo tono era così asciutto che Susannah non riuscì a capire se scherzava davvero.
Cinque minuti dopo erano fuori.
2
In Badlands Avenue
1
Emersero da una porta ad arco semidiroccata, che si apriva nel fianco di una collina vicino a una baracca di lamiera simile alla Stazione Sperimentale dell'Arco 16, ma di dimensioni molto più ridotte. La copertura della piccola costruzione era rossa di ruggine. Davanti a essa, una serie di mucchietti di ossa erano disposti a semicerchio. Le rocce circostanti erano in più punti annerite e spaccate; un macigno grande quanto la casa Queen Anne dove venivano tenuti i Frangitori era spezzato in due e mostrava un nucleo pieno di minerali luccicanti. L'aria era fredda e si sentiva fischiare incessante il vento, ma le rocce offrivano una discreta protezione ed entrambi levarono con muta gratitudine il volto al cielo di un azzurro limpidissimo.
«Qui c'è stata battaglia, vero?» chiese Susannah.
«Sì, direi di sì. Grande, molto tempo fa.» La sua voce tradiva lo sfinimento della lunga corsa.
Davanti alla porta socchiusa della baracca di lamiera c'era un cartello caduto per terra a faccia in giù. Susannah pretese che Roland la scaricasse dall'imbracatura per poterlo alzare e leggere. Roland l'accontentò, quindi si sedette con la schiena contro una roccia a contemplare Castello Discordia, che si trovava ora dietro di loro. Due torri si elevavano nel blu, una integra e l'altra mancante della parte superiore. Si concentrò sulla propria respirazione. Il terreno sotto di lui era molto freddo e già sapeva che la loro traversata di quella regione rocciosa sarebbe stata difficile.
Intanto Susannah aveva sollevato il cartello. Reggendolo con una mano, lo ripulì con l'altra dell'antica crosta di terra che ne nascondeva la scritta. Le parole che emersero le provocarono un brivido profondo:
QUESTO POSTO DI BLOCCO È CHIUSO.
PER SEMPRE.
Sotto, in rosso, a fissarla con astio, c'era l'Occhio del Re.
2
Nel locale principale della baracca c'erano solo resti di attrezzature andate in rovina e altri scheletri, nessuno dei quali ancora intero. Nel magazzino adiacente, però, Susannah ebbe qualche piacevole sorpresa. Ripiani e ripiani di cibo in scatola - più di quanto avrebbero potuto mai portar via - e anche dell'altro Sterno. (Escludeva l'eventualità che Roland avrebbe preso di nuovo sottogamba l'invenzione del fuoco in scatola, e in questo aveva ragione.) Fece capolino dalla porta posteriore del magazzino quasi soprappensiero, senza aspettarsi di trovare altro che forse qualche scheletro, e in effetti uno c'era. Il premio alla sua curiosità era però il veicolo su cui sedeva quell'instabile architettura di ossa: un carrello non molto dissimile da quello su cui si era trovata in cima al castello, durante il suo conciliabolo con Mia. Questo era più piccolo ma anche in condizioni assai migliori. Le ruote non erano di legno bensì di metallo, ricoperte da una striscia di materiale sintetico. Era anche munito di manici da traino, che lo facevano somigliare a un risciò.
Rimboccati le maniche, pezzo di carne secca!
Era una tipica cattiveria da Detta Walker, ma le strappò una risata involontaria.
«Che cos'hai trovato di così divertente?» gridò Roland.
«Vedrai», gli rispose sforzandosi di tenere a bada la voce di Detta. Senza tuttavia riuscirci del tutto. «Lo vedrai fin troppo presto, somarello mio.»
3
Dietro al risciò c'era un piccolo motore, ma videro entrambi al primo sguardo che non funzionava da secoli. Nel magazzino Roland trovò alcuni semplici arnesi, fra i quali una chiave regolabile. Era bloccata con le ganasce aperte, ma ridiventò utilizzabile con l'applicazione di un po' di olio (preso da una lattina rossa e nera che a Susannah parve più che mai familiare). Roland usò la chiave per smontare il motorino e rimuoverlo dal carrello. Mentre lavorava Susannah era occupata in quella che Papà Mose chiamava «supervisione pesante», Oy sedeva a quaranta passi dall'arco attraverso il quale erano usciti, a montare di guardia contro la cosa che li aveva braccati nel buio.
«Saranno stati cinque o sei chili, giudicò Roland pulendosi le mani sui jeans e guardando il motore rotolato per terra. «Ma sono sicuro che sarò contento di essermene liberato quando avrò finito di tirarmi dietro quest'affare.»
«Quando partiamo?» chiese lei.
«Appena avrò fatto rifornimento di viveri per quanto sarò in grado di trasportare», rispose lui e si concesse un lungo sospiro. Era pallido sotto la barba lunga. Aveva occhiaie profonde sotto gli occhi, nuove rughe gli solcavano le guance e gli scendevano fino al mento dagli angoli della bocca. Era magro come un stecco.
«Non puoi, Roland! Non così presto! Sei troppo stanco!»
Roland indicò Oy, che vegliava pazientemente a quaranta passi dall'imboccatura della galleria. «Hai voglia di essere così vicina a quel buco quando farà buio?»
«Possiamo accendere un fuoco...»
«Potrebbe avere amici che non hanno paura del fuoco», obiettò lui. «Finché eravamo in quel cunicolo, potrebbe non aver avuto voglia di condividerci con altri perché pensava che non fosse indispensabile. Ora potrebbe cambiare idea, specialmente se è di carattere vendicativo.»
«Una cosa come quella non può pensare. Non ci credo.» Era più facile cercare di convincersene ora che erano fuori. Ma sapeva che avrebbe potuto cambiare idea quando le ombre avrebbero cominciato ad allungarsi intorno a loro fondendosi l'una nell'altra.
«Io dico che è un rischio che non possiamo permetterci di correre», disse Roland.
E Susannah, con molta riluttanza, concluse che aveva ragione.
4
Per loro fortuna il primo tratto di stretto sentiero tra le rocce era quasi pianeggiante, e quando arrivarono alla prima salita vera e propria, Roland non si oppose a che Susannah smontasse e arrancasse di buona fino alla cima dietro il carrello da lei ribattezzato Fior di Taxi. A poco a poco Castello Discordia si allontanava dietro di loro. Roland proseguì anche dopo che le rocce ebbero nascosto del tutto la torre parzialmente crollata, ma quando non videro più nemmeno l'altra, indicò una nicchia scavata nella pietra accanto al sentiero che stavano percorrendo. «Per questa notte ci accamperemo lì, se non hai obiezioni», annunciò.
Susannah non ne aveva. Avevano portato con loro ossa e brandelli di indumenti color cachi a sufficienza per accendere un fuoco, ma Susannah sapeva che il loro materiale combustibile non sarebbe durato a lungo. I pezzi di stoffa si sarebbero consumati velocemente come carta di giornale e le ossa sarebbero diventate cenere prima che le lancette dell'elegante orologio nuovo di Roland (che lui le aveva mostrato con non poca soggezione) si fossero sovrapposte a indicare la mezzanotte. L'indomani sera non avrebbero avuto fuoco a far loro compagnia e avrebbero dovuto mangiare cibo freddo direttamente dalle scatole. Si rendeva conto che sarebbe potuto essere mille volte peggio di così - giudicava la temperatura diurna intorno ai sette gradi e almeno qualcosa da mettere sotto i denti, l'avevano - ma che cosa non avrebbe dato per un bel maglione; ancora di più per un paio di mutandoni.
«Probabilmente troveremo altra roba da bruciare lungo il cammino», commentò con ottimismo dopo che ebbero acceso il fuoco (le ossa mandavano un odore cattivo e fecero attenzione a sedersi sopravvento). «Sterpi... arbusti... altre ossa... magari persino legna secca.»
«Io non credo», ribatté lui. «Non su questo lato del castello del Re Rosso. Neanche erba diavola, che pure nel Medio-Mondo cresce praticamente dappertutto.»
«Non puoi esserne certo.» Non sopportava di pensare a giorni e giorni di freddo costante, quando entrambi indossavano indumenti buoni caso mai per una giornata di primavera a Central Park.
«Credo che quando oscurò Rombo di Tuono, abbia assassinato tutte queste terre», spiegò Roland. «Probabilmente all'inizio è stato solo uno scossone, ma ora tutto questo territorio è diventato sterile. Ma tu guardala dal lato buono.» Si allungò a toccare un foruncolo che le era nato di fianco al labbro inferiore. «Cent'anni fa questo sarebbe forse diventato nero e si sarebbe diffuso divorandoti la pelle fino all'osso. Ti sarebbe entrato nel cervello e ti avrebbe fatto impazzire prima di darti morte.»
«Cancro? Radiazioni?»
Roland si strinse nelle spalle come a dire che non era importante. «Può anche darsi che quando saremo più lontani dal castello del Re Rosso troveremo di nuovo praterie e persino foreste, ma con tutta probabilità l'erba sarà sepolta sotto la neve, perché la stagione è quella sbagliata. Lo sento nell'aria e lo vedo nel modo in cui la sera cala veloce.»
Susannah gemette cercando di ottenere un effetto comico, ma il verso che fece fu piuttosto un'espressione di paura e stanchezza così concrete da spaventarla. Oy drizzò le orecchie e si girò a guardarli. «Perché non mi tiri un po' su di morale, Roland?»
«È necessario che tu conosca la verità», dichiarò lui. «Potremo resistere in questa maniera anche per molto tempo, Susannah, ma non sarà piacevole. Su quel carrello abbiamo abbastanza da nutrirci per un mese e più, se saremo parsimoniosi... e lo saremo. Quando raggiungeremo nuovamente territori dove c'è vita, troveremo animali anche con la neve. Ed è questo che io voglio. Non perché a quel punto avremo appetito di carne fresca, anche se certamente sarà così, ma perché avremo bisogno di pelli e pellicce. Spero che non ne avremo disperatamente bisogno, che non si debba arrivare all'esasperazione, ma...»
«Ma hai paura che succederà.»
«Sì, ho paura che succederà», ammise lui. «Perché se il tempo si protrae, poche cose al mondo sono scoraggianti quanto il freddo costante, non una temperatura tanto bassa da uccidere, magari, ma sempre presente, che ti consuma le energie e la forza di volontà e il grasso corporeo, grammo dopo grammo. Ho paura che ci attenda una prova delle più dure. Vedrai.»
Vide.
5
Poche cose al mondo sono scoraggianti quanto il freddo costante.
Le giornate non erano troppo crudeli. Erano comunque in movimento, tenevano in esercizio i muscoli e sostenevano la circolazione del sangue. Non di meno anche durante il giorno cominciò a patire i tratti di terreno aperto che ogni tanto incontravano, dove il vento soffiava su miglia di roccia accidentata brulla e s'incuneava fischiando tra le rare rupi e mesa. Questi affioramenti si ergevano nel blu immodificabile del cielo come le dita rosse di giganti di pietra sepolti. Arrancando sotto i vortici lattiginosi delle nuvole che correvano lungo il Sentiero del Vettore, il vento sembrava ancora più teso. Davanti al volto, per proteggerselo, teneva le mani screpolate, odiando il modo in cui le dita non le diventavano mai del tutto insensibili e si trasformavano invece in appendici torpide piene di vespe impazzite. Gli occhi le si riempivano di acqua, dopodiché le lacrime le sprizzavano fuori scendendo per le guance. I rivoli che formavano non si congelavano mai, il freddo non era abbastanza intenso. Ma era abbastanza aspro da fare della loro vita una pena progressivamente più sfiancante. Per quanto poco avrebbe venduto la sua anima immortale in quegli spiacevoli giorni e orribili notti? Alle volte pensava che si sarebbe accontentata di un singolo maglione; altre volte pensava: No, tesoro, anche così hai troppo rispetto per te stessa. Saresti disposta a passare l'eternità all'inferno, o peggio ancora nell'oscurità della contezza per un semplice maglione? Mai più!
Be', forse... Ma se il diavolo tentatore avesse aggiunto al maglione un paio di paraorecchie...
E ci sarebbe voluto così poco per rendere la loro situazione meno penosa. Ci pensava in continuazione. Avevano da mangiare, avevano anche dell'acqua, perché a intervalli di quindici miglia lungo il sentiero trovavano pompe ancora funzionanti da cui spillavano getti di gelida acqua saporosa di minerali, risucchiata dalle profondità delle... Badlands.
Badlands. Aveva avuto ore e giorni e, ultimamente settimane, per meditare su quella parola. Territori brulli, con solchi di erosione, ma letteralmente «lande cattive». Che cosa le rendeva cattive? Acqua avvelenata? L'acqua non era dolce, questo no, ma non era nemmeno avvelenata. La mancanza di cibo? Avevano da mangiare, anche se probabilmente il problema si sarebbe presentato più avanti, se non avessero trovato altre fonti di rifornimento. Intanto cominciava a non poterne più di carne in scatola, per non parlare di uvette per prima colazione e ancora uvette se aveva voglia di un dessert. Ma era comunque cibo. Benzina per il corpo. A rendere cattive le terre cattive, che cos'era allora, quando avevi da mangiare e bere? Guardare il cielo prima indorarsi e poi arrossire a ovest; guardarlo diventare viola e poi nero e punteggiato di stelle a est. Assisteva al morire del giorno con crescente disagio: il pensiero di un'altra notte interminabile, loro tre stretti assieme nei gemiti nel vento che serpeggiava tra le rocce e sotto lo sguardo spietato delle stelle. Distese sconfinate di gelido purgatorio mentre piede e mani sfrigolavano e ti veniva da pensare : se solo avessi un maglione e un paio di guanti non soffrirei tanto. Una sciocchezza, in fondo, solo un maglione e un paio di guanti. Perché non fa poi così freddo.
Ma quanto freddo faceva veramente dopo il calar del sole? Mai sotto lo zero, lo sapeva, perché l'acqua che versava per Oy non si congelava mai. La temperatura scendeva probabilmente intorno ai quattro gradi nelle ore tra la mezzanotte e l'alba; un paio di volte poteva essere arrivata un po' più in basso ancora, perché aveva notato minuscoli grumi di brina lungo il bordo del pentolino da cui mangiava Oy.
Cominciò a tener d'occhio il suo pelo. All'inizio si disse che era solo un esercizio mentale, un modo per passare il tempo: calcolare a quale livello di temperatura funzionasse il metabolismo del bimbolo e quanto caldo gli garantisse quella pelliccia (quella folta pelliccia, quella accogliente pelliccia, quella rigogliosa pelliccia)? A poco a poco riconobbe il suo sentimento per quello che era: invidia, espressa nei brontolii di Detta. «Lo stronzetto non soffre neanche di una virgola dopo il tramonto, vero? Ah no, lui no. Dici che ricaveresti due paia di manopole da quella pelliccia?»
Pensieri come quelli, li scacciava, sentendosi colpevole e disgustata di sé, domandandosi se esistesse un limite inferiore al degrado dello spirito umano nell'esercizio della sua peggior veste calcolatrice ed egocentrica, e non desiderando conoscerne la risposta.
Sempre più in profondità si insinuò quel gelo dentro di loro, giorno dopo giorno, notte dopo notte. Era come una scheggia. Dormivano abbarbicati l'uno all'altra con Oy nel mezzo, poi si giravano in modo da rivolgere all'interno il lato che avevano lasciato esposto alla notte. Il sonno veramente riposante non durava mai a lungo, per quanto stanchi fossero. Quando la luna cominciò a crescere illuminando il buio, per due settimane camminarono di notte e dormirono durante il giorno. Fu un po' meglio.
La sola fauna che videro era costituita da grandi uccelli neri. Volavano contro l'orizzonte sudorientale o erano riuniti come in conversazione in cima alle mesa. Se il vento era quello giusto, Roland e Susannah udivano le loro chiacchiere, garrule e stridule.
«Secondo te sono buoni da mangiare?» chiese una volta Susannah al pistolero. La luna era alla fine, perciò avevano ripreso a viaggiare durante il giorno per vedere eventuali insidie (in più di un'occasione il loro percorso era attraversato da profondi crepacci e in un caso incontrarono una dolina che sembrava senza fondo).
«Tu che cosa ne pensi?» ribatté Roland.
«Probabilmente no, ma non mi dispiacerebbe provarne uno per sentire com'è.» Fece una pausa. «Secondo te di che cosa si cibano?»
Roland si limitò a scuotere la testa. In quel punto il sentiero si insinuava in un fantastico giardino pietrificato di formazioni rocciose a guglia. Più avanti c'era uno stormo nutrito di quegli uccelli, cento o più volatili neri, simili a corvi, alcuni a volteggiare al di sopra di una mesa dalla cima appiattita, altri appollaiati lungo il ciglio a guardare in direzione di Roland e Susannah, come un collegio di giurati dagli occhietti cattivi.
«Forse ci converrebbe fare una piccola deviazione», propose Susannah. «Magari scopriamo che cosa mangiano.»
«Se perdiamo il sentiero, potremmo non ritrovarlo più», obiettò Roland.
«Che stronzata! Oy ci aiuterebbe.»
«Susannah, non voglio più sentirne parlare!» Aveva pronunciato quella sentenza in un tono rabbioso che lei non gli aveva mai sentito prima. D'accordo, non era la prima volta che sentiva Roland parlare mosso dalla collera. Ma qui c'era anche una piccineria, una vena di dispetto che la preoccupò. E la spaventò anche un poco.
Proseguirono in silenzio per mezz'ora, lei seduta sul Fior di Taxi, lui a trainarlo. Poi lo stretto sentiero (Badlands Avenue come lo chiamava lei, cominciò a salire e lei saltò giù, lo raggiunse e camminò al suo fianco. Per affrontare quei tratti, aveva strappato la T-shirt dell'Old Home Days in due pezzi e se li era avvolti alle mani. In quel modo si difendeva dai sassi aguzzi e teneva almeno un po' al caldo le dita.
Lui la guardò, poi tornò a sorvegliare il sentiero davanti a sé. Teneva il labbro inferiore un po' spinto all'infuori e di sicuro non poteva sapere quant'era assurda quell'espressione da bambino capriccioso, quella di un piccolo di tre anni a cui è stata negata una gita al mare. Lui non se ne rendeva conto e lei non glielo avrebbe detto. Un'altra volta, forse, quando avessero potuto ricordare quell'incubo e riderci sopra. Quando non fossero più stati in grado di ricordare con precisione che cosa ci fosse di tanto terribile in una notte in cui la temperatura scendeva a cinque gradi e si restava svegli a rabbrividire sul terreno gelido e a guardare qualche rara meteora che scavava il suo solco di fuoco nel cielo, pensando: Solo un maglione, solo questo mi serve. Un maglione e me ne starei felice e beato come un canarino con il suo osso di seppia. E a chiedersi se dalla pelliccia di Oy si sarebbero potute ricavare un paio di mutande a testa e se ucciderlo non sarebbe stato in fondo un atto di pietà: quella povera bestiola era così triste da quando Jake era andato nella radura.
«Susannah», disse Roland, «poco fa sono stato brusco con te e invoco il tuo perdono.»
«Non c'è bisogno.»
«Io credo di sì. Abbiamo già abbastanza problemi senza crearne di nuovi tra noi. Senza inventarci motivi di risentimento l'una con l'altro.»
Lei rimase in silenzio. Guardandolo, mentre lui era rivolto a sud-est, dove volteggiavano gli uccelli.
«Quei corvi», mormorò Roland.
Lei tacque in attesa.
«Quando era bambino, li chiamavano anche i Neri di Gan. Ho raccontato a te e a Eddie di quella volta che con il mio amico Cuthbert sparsi pane per gli uccelli dopo l'impiccagione del cuoco, vero?»
«Sì.»
«Erano uccelli come questi, quelli che alcuni chiamano Corvi Castello. Mai Corvi Reali, però, perché erano uccelli mangiatori di carogne. Tu mi hai chiesto di che cosa si cibano. Può ben darsi che razzolino nei cortili e nei vicoli del suo castello, ora che lui se n'è andato.»
«Le Casse Roi Russe, o Roi Rouge, o come si chiama.»
«Aye. Non lo dico per certo, ma...»
Roland non finì e non fu necessario. Osservò lei stessa gli uccelli dopo quel breve scambio e, sì, le parve davvero che andassero e tornassero da sud-est. Poteva significare che stavano macinando strada, alla resa dei conti. Non era molto, ma bastò a risollevarle lo spirito per il resto di quella giornata e fin nel cuore di un'altra notte, trascorsa a rabbrividire in un freddo della malora.
6
Il mattino seguente, mentre consumavano la colazione in un altro bivacco senza fuoco (Roland aveva promesso che quella sera avrebbero usato un po' di Sterno e mangiato cibo almeno tiepido), Susannah chiese di dare un'occhiata all'orologio che gli era stato regalato dalla Tet Corporation. Roland glielo consegnò di buon grado. Lei osservò a lungo i tre sigul incisi nel coperchio, specialmente la torre con la sua spirale di finestre. Poi l'aprì per guardare dentro. «Ripetimi che cosa ti hanno detto», chiese senza alzare gli occhi su di lui.
«Mi hanno riferito una cosa ricevuta da una delle loro menti buone. Una persona di talento particolare, a quel che mi hanno raccontato, anche se non ricordo più il suo nome. Secondo quest'uomo, è possibile che l'orologio si fermi quando saremo vicini alla Torre Nera. O che addirittura cominci a girare al contrario.»
«Difficile immaginare un Patek Philippe che va all'indietro», commentò lei. «Secondo l'orologio, a New York sono le otto e sedici, non si sa se di mattina o sera. Qui sembrerebbero le sei e mezzo del mattino, ma suppongo che non voglia dire un granché né in un senso né nell'altro. Come facciamo a sapere se questa cipolla è veramente precisa?»
Roland aveva smesso di riporre i loro effetti personali nel bagaglio e stava riflettendo sulla sua domanda. «Vedi la lancetta piccola che c'è in fondo? Quella che gira per conto suo?»
«La lancetta dei secondi, sì.»
«Dimmi quando è perfettamente verticale.»
Lei seguì il movimento della lancetta dei secondi dentro il proprio piccolo quadrante e quando fu a mezzogiorno, disse: «Ora».
Roland si era accovacciato, una posizione che poteva assumere senza difficoltà ora che non provava più dolore all'anca. Chiuse gli occhi e si strinse le ginocchia nelle braccia. Ogni fiato che esalava gli usciva dalla bocca in una nuvoletta di condensa. Susannah cercò di non guardare; era come se quel freddo odioso fosse diventato tanto forte da apparire fisicamente davanti a loro, ancora in forma spettrale ma visibile.
«Roland, che cosa stai...»
Lui alzò la mano rivolgendole il palmo, senza aprire gli occhi, e lei si zittì.
La lancetta dei secondi corse lungo la sua circonferenza, prima scendendo, poi risalendo dall'altra parte. E quando arrivò in cima...
Roland aprì gli occhi e disse: «Adesso è un minuto vero, quanto lo sono io sotto questo Vettore».
Susannah rimase a bocca aperta. «Come diavolo ci sei riuscito?»
Roland scosse la testa. Non lo sapeva. Sapeva solo che Cort aveva raccomandato loro di essere sempre in grado di tenere il tempo nella mente, perché non ci si poteva affidare agli orologi, e le meridiane servivano a poco con il cielo coperto. O a mezzanotte, se è per questo. C'era stata un'estate in cui li aveva spediti nella Baby Forest a ovest del castello, scomoda notte dopo scomoda notte (e faceva paura là dentro, almeno quando ci si trovava da soli, anche se naturalmente nessuno lo avrebbe confessato a voce alta, nemmeno l'uno all'altro), finché non avessero imparato a ripresentarsi nel cortile dietro il Salone degli Avi, spaccando il minuto da lui specificato. Strano come funzionava quell'orologio-nella-testa. Il fatto è che all'inizio non funzionava affatto. Una volta. Due volte. Tre volte. E giù che veniva la mano callosa di Cort, giù che veniva come un maglio, e Cort ringhiava: Arrr, larva, domani notte di nuovo nel bosco! Si vede che ci provi gusto ad andarci! Ma quando l'orologio mentale cominciava a funzionare, non sbagliava più. Per un po' Roland lo aveva smarrito, come il mondo aveva perso i punti cardinali, ma ora lo aveva ritrovato e di questo si rallegrava immensamente.
«Hai contato il minuto?» chiese lei. «Mississippi-uno, Mississippi-due... così?»
Lui scosse la testa. «È una cosa che sento. Quando passa un minuto, o un'ora.»
«Stron-zappatore!» lo apostrofò lei sprezzante. «Hai tirato a indovinare!»
«Se avessi tirato a indovinare, avrei parlato dopo un giro preciso della lancetta?»
«Ti sarà andata bene per pura fortuna», insisté Detta e lo rimirò da un occhio solo con un'aria diffidente e furbesca che Roland detestava. (Guardandosi bene dal manifestarlo; avrebbe solo indotto Detta a rinfacciarglielo tutte le volta che metteva fuori il naso.)
«Vuoi che provi di nuovo?» si offrì.
«No», rispose Susannah e sospirò. «Ti prendo in parola sulla precisione del tuo orologio. E questo significa che non siamo vicini alla Torre Nera. Non ancora.»
«Forse non abbastanza vicini da influenzare l'orologio, ma più vicini di quanto io sia mai stato», ribatté in tono pacato Roland. «Relativamente parlando, ora siano quasi nella sua ombra. Credimi, Susannah, lo so.»
«Ma...»
Da sopra di loro giunse un gracchio che era, sì, roco, ma anche stranamente temperato: cru, cru! invece di cra, cra! Susannah guardò su vide uno di quei grossi uccelli neri, quelli che Roland aveva chiamato Corvi Castello, che passava in quel momento sopra le loro teste, volando abbastanza basso da far sentire i faticosi battiti delle ali. Appeso al lungo becco portava una strisciolina inerte di qualcosa di color giallo-verde. A Susannah fece pensare a un pezzo di alga marina morta. Ma non interamente morta.
Si girò eccitata verso Roland.
Lui annuì. «Erba diavola. La porta probabilmente per imbottire il suo nido di cova. Non è certo roba da dar da mangiare ai bimbini. Non quella. Ma l'erba diavola è sempre l'ultima a scomparire quando ti addentri nelle Terre del Nessun Dove, ed è sempre la prima a riapparire quando ne esci, come stiamo facendo noi. E finalmente ne stiamo uscendo. Ora ascoltami, Susannah, voglio che tu mi ascolti e voglio che tu spinga il più lontano possibile quella noiosa megera di Detta. Né ti permetterò di sprecare il mio tempo lasciandoti sostenere che non c'è quando la vedo ballare la Gommala nei tuoi occhi.»
Susannah rimase sorpresa, quindi piccata, quasi sul punto di protestare. Poi distolse gli occhi senza aprire bocca. Quando lo guardò di nuovo, non avvertiva più la presenza di quella che Roland aveva definito «la noiosa megera». Ed evidentemente anche lui non ne percepiva più la presenza, perché proseguì.
«Credo che presto ci sembrerà di uscire da questo deserto di roccia, ma ti raccomando di non fidarti di ciò che vedi: qualche costruzione e magari qualche strada pavimentata non significano salvezza o civiltà. E tra non molto arriveremo al suo castello. Le Casse Roi Russe. Quasi certamente il Re Rosso non vi dimora più, ma potrebbe aver lasciato una trappola per noi. Voglio che tu guardi e ascolti. Se ci sarà da parlare, voglio che lasci che ci pensi io.»
«Che cosa sai che io non so?» domandò lei. «Che cosa mi nascondi?»
«Niente», disse lui (con un impeto sincero che gli era raro). «È solo una sensazione, Susannah. Ormai siamo vicini alla nostra meta. Qualunque cosa indichi quell'orologio. Siamo vicini a conquistarci il nostro ingresso alla Torre Nera. Ma Vannay, il mio tutore, diceva sempre che c'è una sola regola che non ha eccezioni: prima della vittoria viene la tentazione. E più è grande la vittoria da conquistare, più grande la tentazione a cui resistere.»
Susannah rabbrividì e si strinse le braccia intorno al corpo. «Io voglio solo stare al caldo», rispose. «Se, in cambio della rinuncia alla Torre, nessuno mi offre una bella fascina di legna e una tuta di flanella, credo che potremo tirare avanti ancora un po'.»
Roland rammentò una delle più importanti massime di Cort - non dire mai il peggio a voce alta! - ma rimase in silenzio, almeno su quell'argomento. Mise via religiosamente il suo orologio, quindi si rialzò pronto a rimettersi in marcia.
Ma Susannah indugiò ancora un istante. «Ho sognato quell'altro», rivelò. Non c'era bisogno che specificasse di chi parlava. «Per tre notti di fila, che ci correva dietro al galoppo. Tu credi che ci sia davvero?»
«Oh sì», rispose Roland. «E credo che abbia la pancia vuota.»
«Fame, Mordred ha fa-fame», mormorò lei, ripetendo le parole che aveva udito nel sogno.
Rabbrividì di nuovo.
7
Il sentiero che stavano percorrendo si allargò e nel pomeriggio apparvero i primi tratti sgretolati di pavimentazione. Si allargò ancora di più e non molto prima che facesse buio giunsero in un punto dove vi confluiva un altro sentiero (che in un passato lontano era stato sicuramente una strada). Piantato nel terreno c'era un paletto arrugginito che probabilmente sosteneva un cartello, ormai scomparso. Il giorno seguente trovarono il primo edificio su questo lato di Fedic, un rudere con un'insegna rovesciata sul poco che restava della veranda. Sul retro c'erano i resti di un fienile. Con l'aiuto di Roland, Susannah rialzò l'insegna sulla quale riuscirono a leggere una parola: STALLAGGIO. Sotto c'era l'occhio rosso che avevano imparato a conoscere così bene.
«Credo che la pista che stiamo seguendo sia stata un tempo percorsa da un servizio di diligenze tra Castello Discordia e Le Casse Roi Russe», notò Roland. «Sarebbe logico.»
Più avanti incontrarono altre costruzioni, altre strade che si intersecavano. Erano alla periferia di un centro abitato, forse addirittura una città che un tempo si estendeva intorno al castello del Re Rosso. Ma differenza di Lud, ne era rimasto molto poco. L'erba diavola cresceva in ciuffi smortigni intorno ai ruderi di alcuni fabbricati; ma di vivo c'era poco altro. E il freddo stringeva tutto in una morsa spietata. La quarta notte dopo aver avvistato i corvi, cercarono di accamparsi tra le macerie di un edificio ancora parzialmente in piedi, ma entrambi udirono bisbigli nelle ombre. Roland, con una seraficità che Susannah trovò alquanto inquietante, affermò che potevano essere i fantasmi di quelli che chiamò «domini», e suggerì di uscire in strada.
«Non credo che potrebbero farci del male, ma potrebbero farne alla bestiolina», spiegò e accarezzò Oy, che gli si era accovacciato in grembo con una timidezza a lui molto insolita.
Susannah tornò fuori più che volentieri. Nella casa in cui avevano cercato di accamparsi regnava un freddo che le sembrava peggiore di quello fisico. Gli esseri che avevano udito sussurrare là dentro erano forse Antichi, ma la sua impressione era che avessero ancora un appetito più che vivace. Così si abbarbicarono di nuovo l'una all'altro per tenersi caldo in mezzo a Badlands Avenue, di fianco al Fior di Taxi, e attesero che l'alba facesse risalire la temperatura di qualche grado. Cercarono di accendere un fuoco con le tavole di legno di uno degli edifici diroccati, ma riuscirono solo a sprecare due manciate di Sterno. Le fiamme alimentate dalla gelatina percorsero inutilmente i pezzi scheggiati di una seggiola che avevano usato per avviare il fuoco e morirono senza alcun risultato. Quella legna si rifiutava semplicemente di bruciare.
«Perché?» chiese Susannah mentre guardava dissiparsi l'ultimo filo di fumo. Perché?
«Sei sorpresa, Susannah di New York?»
«No, ma vorrei sapere perché. È troppo vecchia? Pietrificata o che so io?»
«Non brucia perché ci odia», rispose Roland, come se dovesse essere stato ovvio anche a lei. «Questo è il suo posto, ancora suo anche se lui è andato via. Tutto qui ci odia, però... ascoltami, Susannah. Ora che siamo su una strada vera, per lunghi tratti pavimentata, che cosa ne dici di viaggiare di nuovo di notte? Ci stai?»
«Senz'altro», rispose Susannah. «Qualunque cosa sarà meglio che sdraiarsi sull'asfalto a tremare come un micio che è stato appena tuffato in un barile pieno d'acqua.»
Dunque fecero così, per il resto di quella nottata, tutta quella seguente e altre due ancora. Mi ammalerò, continuava a pensare lei, non posso andare avanti così senza che mi prenda qualcosa. Ma non si ammalò. Neppure Roland. C'era solo quel foruncolo a sinistra del labbro inferiore che ogni tanto maturava e lasciava scivolare fuori un filo di sangue prima di richiudersi e formare una nuova crosticina. La loro sola malattia era quel freddo che non finiva mai e che penetrava sempre di più nei loro corpi. La luna era di nuovo crescente e venne la sera in cui Susannah si rese conto che camminavano in direzione sud-est provenendo da Fedic da quasi un mese.
Lentamente un villaggio abbandonato sostituì le fantastiche aiuole di guglie di roccia, ma Susannah aveva fatto sua la parola di Roland: erano ancora nelle badlands e, anche se si imbattevano di tanto in tanto in un cartello secondo cui stavano viaggiando sulla VIA DEL RE (con tanto d'occhio, naturalmente; l'occhio rosso c'era sempre), sapeva bene che calcavano ancora e sempre il fondo di Badlands Avenue.
Era una bizzarria di villaggio e non riusciva a immaginare quale specie di anomalie viventi potessero averlo abitato. Le vie secondarie erano acciottolate. I cottage erano stretti e con il tetto aguzzo, le porte d'ingresso strettissime e incredibilmente alte, come se dovessero servire persone deformate, come quelle riflesse dagli specchi di un baraccone di luna-park. Erano case alla Lovecraft, case alla Clark Ashton-Smith, case di frontiera alla William Hope Hodgden, tutte riunite sotto una falce di luna alla Lee Brown Coye, case tutte sghembe e sbilenche sulle pendici dei colli che fiancheggiavano la strada. Qua e là ce n'era una crollata e le macerie avevano un che di spiacevolmente organico, quasi che fossero brani di carne putrescente invece di vecchie assi e vetri. Ripetutamente Susannah si sorprese a scorgere facce morte che la sbirciavano da questa o quella configurazione di tavole di legno e ombre, facce che sembravano girarsi tra le macerie e seguire il loro corso con terribili occhi da zombie. Allora le veniva da pensare al Guardiano di Dutch Hill e rabbrividiva.
Nel corso della loro quarta notte sulla Via del Re, arrivarono a un grande incrocio, dove la strada principale girava piegando più a sud che a est e staccandosi così dal Sentiero del Vettore. Davanti a loro, a meno di una notte a piedi (o su quattro piccole ruote, per chi si fosse trovato a bordo del Fior di Taxi), c'era un'altura in cui sprofondava le sue radici un enorme castello nero. Nella luce stentata della luna aveva un vago aspetto orientale. Le torri avevano sommità arrotondate e sporgenti, quasi che desiderassero farsi passare per minareti. Erano unite da fantastici camminamenti sospesi che s'incrociavano sul cortile davanti al castello vero e proprio. Alcune di queste passerelle erano in rovina, ma per la maggior parte erano ancora intatte. C'era anche un vasto rumore di sottofondo, un brontolio sommesso. Non di macchinari. Chiese aiuto a Roland.
«Acqua», disse lui.
«Che tipo di acqua? Hai idea?»
Lui scosse la testa. «Ma non berrei nulla di ciò che scorre vicino a quel castello, a costo di morire di sete.»
«Questo è un brutto posto», mormorò lei, alludendo non solo al castello, ma anche al villaggio senza nome di case pendenti
(spianti)
che cresceva intorno a esso. «E Roland... non è vuoto.»
«Susannah, se senti degli spiriti che bussano per entrare nella tua testa, che bussano o mordono, scacciali.»